mercoledì 17 dicembre 2014

Per il dopo Napolitano, Renzi (o chi per lui) pensa a chi nel 1992 pianificò la distruzione dello Stato italiano


Draghi, Prodi, Amato, i favoriti alla corsa al Quirinale, tutti uomini chiave dopo la prima Tangentopoli



La ridda di ipotesi su chi sarà il prossimo inquilino del Quirinale abbondano negli ultimi giorni del mandato di Giorgio Napolitano. Un dato certo dal quale partire nell’analisi e nelle previsioni sull’ipotetico presidente della Repubblica, non può non partire dal lascito di Re Giorgio. Napolitano lascerà nelle mani del prossimo Capo dello Stato, un sistema profondamente mutato, una forma di governo non più democratica né più costituzionale, poiché già da tempo le prerogative del Presidente si sono ampliate a dismisura, fino a fondere le due figure di Capo del Governo e Capo di Stato, resosi l’interprete più pedissequo e acceso dell’agenda tecnocratica eurista. Chi lo succederà nell’incarico, dovrà avere quelle caratteristiche fondamentali, essenziali per il governo sovranazionale europeo, di fedele adesione al controllo sempre più invadente e totalitario delle elite transnazionali.

Tra i nomi che sono stati avanzati, spicca in particolare, il “Dottor Sottile”, l’attuale giudice della Corte Costituzionale, Giuliano Amato. Deputato del PSI nei primi anni’80, dapprima ostile alla segreteria di Craxi, per poi successivamente affiancarlo come consigliere economico, Amato rappresenta il traghettatore nel sistema europeo; colui il quale ha applicato alla lettera le politiche economiche frutto della logica dell’emergenzialità artificiosa, necessaria per iniziare lo smantellamento dello Stato sociale. Nel 1992,  mentre il PSI venne falcidiato dalle inchieste giudiziarie, Amato passa indenne la furente ondata giudiziaria e viene chiamato dall’allora neoeletto Presidente Scalfaro, a formare il governo dopo le elezioni, il 28 giugno 1992 . Il 2 giugno era già avvenuta la riunione sul panfilo Britannia, presenti tra gli altri Mario Draghi, il dirigente dell’Iri Riccardo Galli , Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto; è in quell’occasione che si decide di sopprimere lo Stato imprenditore, dismettendo le partecipazioni statali dell’IRI, dell’EFIM, il polo chimico, l’IMI e la Nuovo Pignone, solo per citare alcune tra le privatizzazioni più rilevanti.

A realizzare il piano delle svendite statali fu chiamato proprio il Dottor Sottile.  In quel momento l’Italia si trovava agganciata ad un accordo di cambi fissi, lo SME, che con il passare dei mesi si stava rivelando sempre più insostenibile per le casse della Banca d’Italia, costretta a difendere la parità valutaria con l’ECU imposta da quel accordo. La logica avrebbe considerato opportuno e auspicabile, abbandonare lo Sme subito, impedendo il progressivo peggioramento dei conti pubblici che stava svuotando le riserve valutarie della Banca d’Italia. Si andò nell’opposta direzione e Amato decise di approvare un provvedimento inedito nella storia delle manovre finanziare della Repubblica: il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti bancari. Il prelievo  fu approvato con un decreto d’emergenza nella notte tra il 9 luglio e il 10 luglio, e gli italiani si risvegliarono l’indomani con le tasche alleggerite senza poter opporre resistenza.

Il peggio ancora doveva venire quando il Governo Amato nell’autunno successivo, approvò la manovra “lacrime e sangue” di 90000 miliardi di lire con tagli pesantissimi alla spesa pubblica e aumento delle imposte. La motivazione addotta fu quella di ripianare un dissesto delle finanze pubbliche, causato dagli eccessivi sperperi e dai costi dello stato sociale, divenuti insostenibili secondo una dialettica che non lascia spazio ad alternative e che ritroveremo costantemente fino ad oggi, quando si vogliono approvare manovre di stampo liberista. In realtà, i processi economici hanno poco a che fare con gli eventi naturali, sono reversibili e governabili se si utilizza l’elementare logica economica. La destrutturazione dell’economia italiana era stata già sapientemente preparata negli anni addietro, attuando il divorzio Bankitalia- Tesoro e il 1992 è il momento opportuno per il cambio di passo.

Il concetto di tecnocrazia applicato al Belpaese esordisce in quell’anno, quando il destino dell’Italia non è più affidato a governi politici, ma rimesso nelle mani di esecutori tecnici, considerati liberi da logiche elettorali e sconosciuti all’elettorato, dopo che quest’ultimo è stato sapientemente portato a odiare con tutte le sue forze la classe politica, pregna di corruzione e della quale è meglio liberarsi per fare spazio ai sogni, secondo l’espressione un noto comico toscano.  Si abbandona il modello virtuoso di un Paese che godeva di un economia sana, in crescita e temuta dai concorrenti europei. Amato è certamente l’uomo che ha inaugurato il passaggio delle tecnocrazie nella recente storia italiana, il personaggio che ha saputo meglio incarnare le logiche finanziarie che oggi occupano un posto più alto nella gerarchia della scala dei valori costituzionali, anche grazie a lui. Giurista raffinato, eurista convinto e considerato tra i migliori professori di diritto pubblico in Italia, uno tra i pochi a possedere una conoscenza assoluta della materia, l’ex-presidente del Consiglio pare uno dei candidati più papabili a proseguire quel cursus storico che ha cambiato la storia del Paese. Renzi ha già annunciato che sarà il metodo Ciampi, la via preferenziale per eleggere il nuovo Capo dello Stato.  Ciampi, considerato tra i padri dell’Euro, venne eletto al primo scrutinio con 707 voti su 1010.

Se Renzi darà seguito alle sue parole, dovrà necessariamente passare dal consenso delle opposizioni, le quali hanno già espresso il loro gradimento per Giuliano Amato.  Chiunque sarà chiamato a ricoprire il ruolo presidenziale, dovrà compiere il percorso iniziato più di venti anni fa. Un percorso che le élite hanno deciso che deve arrivare a destinazione, costi quello che costi, calpestando gli ultimi rimasugli di democrazia costituzionale. 

lunedì 15 dicembre 2014

#MafiaCapitale strumentale all'ultimo smembramento dello Stato sociale


Il vero ostacolo sta nel convincere chi ancora crede che la realtà sia quella del gioco delle ombre.




L’inchiesta “Mafia Capitale” è per gli amanti della società minima, priva di uno Stato regolatore, l’occasione per domandare il definitivo passaggio e abbandono degli ultimi residui costituzionali dello Stato sociale, che aveva costruito l’economia del benessere dal secondo dopoguerra fino agli anni’90. Il liberismo, si dice, è la cura del male, quella panacea che consentirebbe allo stato contemporaneo di emanciparsi dal cancro della corruzione. Il libero mercato regolerebbe automaticamente i bisogni tra domanda e offerta, togliendo l’ostacolo statale, vero e proprio ingombro per i piani degli speculatori, i quali domandano ancora maggiore libertà d’azione, tale da ampliare a dismisura il loro raggio d’azione e renderli completamente padroni e arbitri dei destini di milioni di cittadini, non più tutelati dallo scudo costituzionale e dai principi fondamentali; su tutti l’obiettivo e il dovere di realizzare l’uguaglianza sostanziale, che passa dalla rimozione di quegli ostacoli e barriere socio-economiche connaturati ad una società priva di un soggetto decidente e risolutore, lo Stato sociale.

Nella trasformazione occorsa nell’ultimo ventennio di accadimenti politici, possiamo già affermare che viviamo in una società senza Stato, al quale sono state sottratte da tempo tutte le prerogative fondamentali d’intervento e di risoluzione dei conflitti sociali. Se la corruzione e il malaffare prosperano ancora di più che nella stagione della prima Repubblica, non è certo perché lo Stato abbia utilizzato poteri pregnanti e invasivi, lesivi delle libertà personali dei cittadini, ma specularmente ciò è stato possibile proprio grazie all’uscita di scena del soggetto naturalmente portato ad arginare la brama delle elite sempre più desiderose di guadagnare fette di mercato, basandosi su un’agenda priva di diritti sociali e ricca di principi incostituzionali e antisociali.

Nel 1992 il primo epocale passaggio non è stato rappresentato solamente dall’intervento di un soggetto nuovo, la magistratura, nel ricambio e nella distruzione di una classe dirigente, ma soprattutto dal Trattato di Maastricht al quale abdicò l’intero arco parlamentare ( con l’eccezione del Movimento Sociale e di Rifondazione Comunista) , così da introdurre un modello nuovo, più simile al liberismo dei primi del’900 quando era il censo e l’appartenenza ad un determinato ceto sociale a decidere in quale gradino della piramide sociale, il cittadino avrebbe dovuto collocarsi. Il concetto stesso di aiuti di Stato, sanzionati e proibiti dai Trattati, rappresenta un’antinomia inconciliabile con l’art.41 e l’art. 43 che prevedono un intervento diretto della mano pubblica quando sono in gioco interessi che toccano le sorti della collettività nazionale. Stabilire una soccombenza  dello Stato a interessi di mercato, vuol dire rinunciare implicitamente alla realizzazione dei diritti sociali.

Dopo vent’anni di politiche economiche restrittive, di avanzi primari e rinuncia di tutti i diritti sociali conquistati dopo decenni di lotte, si domanda un passaggio ancora più incisivo: un liberismo completo e totalitario che instauri lo Stato minimo di Von Hayek e di Von Mises. Il modello anglosassone è ancora una volta la pietra di paragone con la quale siamo chiamati, nostro malgrado, a confrontarci. Un modello che non prevede la sanità pubblica, dove le carceri sono privatizzate e si registra il più alto numero di detenuti al mondo. Una società deregolamentata nella quale le lobby non hanno problemi ad attuare o praticare forme di lobbismo nei confronti dei due principali partiti politici, il Partito Repubblicano e il Partito Democratico, poiché esiste un registro pubblico che consente di sapere quale banca o industria multinazionale foraggi il gruppo politico di turno, e di conseguenza non è difficile immaginare perché un gruppo politico persegua politiche economiche che vanno contro l’interesse del 95% della comunità. Non c’è alcun bisogno di contrastare la corruzione, essa è una forma di scambio legalizzata che avviene alla luce del sole senza alcuna forma di ipocrisia.

Questo il modello che si domanda all’Italia: rinunciare agli ultimi bastioni di sovranità e di diritti sociali per lasciare alla mano privata tutti i servizi essenziali minimi da garantire ai cittadini. Non è qualcosa di remoto o di lontanamente immaginario, è già presente da tempo viste le difficoltà di accesso all’università e i costi crescenti della sanità pubblica sempre più indebolita dai tagli della spesa primaria. La limitazione del diritto allo studio e delle cure sanitarie, sono il ripristino della società dei pochi eletti, del censo privilegiato al quale è concessa l’ascensione sociale solamente ai notabili delle ricche famiglie. Dei diritti innati, tutelati dall’appartenenza di sangue e alle dinastie dei poteri forti. I padri della Costituzione, seppero intuire che senza l’essenziale funzione dello Stato, l’individualismo avrebbe regnato sui rapporti sociali, portandoli all’inevitabile logoramento e disequilibrio.

Come rilevò magistralmente il Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini nei lavori di stesura della Costituzione: “ Se le prime enunciazioni dei diritti dell'uomo erano avvolte da un'aureola d'individualismo, si è poi sviluppato, attraverso le stesse lotte sociali, il senso della solidarietà umana. Le dichiarazioni dei doveri si accompagnano mazzinianamente a quelle dei diritti. Contro la concezione tedesca che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del «tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato», rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune. «Lo Stato — diceva Mazzini — non è arbitrio di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità». Spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l'autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso.” Qualora la Repubblica cessi di tutelare i suoi cittadini, rinunciando alle attribuzioni fondamentali che le sono riconosciute, si entra in un sistema nuovo, non più democratico. Senza diritto all’occupazione, ad un salario dignitoso, all’istruzione e alle cure sanitarie non c’è democrazia. Resta la società liberista ottocentesca della domanda e dell’offerta che  realizzano un equilibrio perfetto solamente per le classi alte.

La società liberista è l’espressione più subdola dell’autoritarismo contemporaneo, dando l’illusione ai suoi appartenenti di vivere in una società democratica, colma dei diritti di quarta generazione ma spogliata dei diritti di seconda generazione, senza i quali non è possibile una realizzazione piena ed effettiva delle condizioni essenziali del cittadino pensato dalla Costituzione. Della costituzione americana c’è un’espressione che forse fa al nostro caso: il diritto alla felicità. Abbiamo il diritto di essere felici e di godere appieno dei diritti che non ci sono stati “concessi”, ma guadagnati con il sangue delle generazioni del secolo scorso. La Repubblica ha il diritto-dovere di aumentare la sua spesa pubblica, di ridurre le imposte, e di raggiungere la piena occupazione. Qualora un Trattato o accordo internazionale stabilisse una gerarchia rovesciata, sottomettendo i diritti sociali al divieto di indebitamento e di deficit statale, esso deve essere rigettato inevitabilmente poiché la sua applicazione comprometterebbe il funzionamento dello Stato e la somministrazione dei servizi pubblici. Come nel mito della caverna di Platone, i prigionieri credono che il gioco delle ombre proiettate sul muro rappresenti la realtà del mondo esterno, così nella società odierna molti credono che il mondo reale sia la rappresentazione trasmessa dai mass-media. Il vero ostacolo sta nel convincere chi ancora crede che la realtà sia quella del gioco delle ombre. 

martedì 9 dicembre 2014

La nuova Tangentopoli e un nuovo vincolo esterno sullo sfondo



Nel 1992 l'annullamento di un'intera classe dirigente portò a Maastricht e all'euro. Oggi?



Le immagini di Arnaldo Forlani alla sbarra per il processo Enimont, in preda al panico e tremante di  fronte alle incalzanti domande del pm Di Pietro sono rimaste scolpite come simbolo dell’inchiesta giudiziaria di Mani Pulite nel 1992. Per la prima volta, il potere era chiamato a rispondere in prima persona dei propri misfatti di fronte a una gremita aula di giustizia, al cospetto di una folla a tratti più stupita che rancorosa, quasi incredula del passaggio epocale che si stava compiendo. 
 
Mani Pulite ancora oggi divide, e l’interpretazione condivisa da molti storici e analisti, è la portata del cambiamento che essa rappresentò nel panorama politico italiano. La fine della politica per come la conoscevamo, il sistema multipartitico con il ruolo del Parlamento preminente, risultato di equilibri e contrappesi tra i partiti politici italiani termina definitivamente. Un’ondata giudiziaria spazzerà via un’intera classe dirigente, divenuta ingombrante e di intralcio sulla strada che condurrà all’edificazione dei pilastri della globalizzazione e del “vincolo esterno”, da allora in poi divenuto il vero riferimento sovrastrutturale di qualsiasi governo che si succederà negli anni. 
 
Il Trattato di Maastricht del 1992 è la fine della democrazia costituzionale, lo smantellamento dello Stato imprenditore e degli equilibri parlamentari che avevano governato il Paese fino a quel momento.  Un passaggio di enorme importanza, che porterà l’Italia ad una cessione di sovranità inedita nell’ordinamento giuridico, le cui prerogative erano già limitate dall’influenza statunitense e della Nato nelle decisioni di politica estera; una condizione che aveva portato l’Italia ad essere definita un paese a sovranità limitata. In questo cambiamento, potremmo definire decisivo il ruolo della magistratura, che ritroveremo negli anni successivi protagonista, chiamata ad un percorso di purificazione, quasi una sorta di catarsi che porterà il popolo italiano a considerarsi irredimibile, naturalmente votato alla corruzione, tanto da abbracciare il vincolo esterno  e identificarlo nella soluzione del male. 
 
La sparizione di un’intera classe dirigente, non ha guarito i mali delle corruttele e delle malversazioni politiche, li ha solo accentuati per renderli endemici e strutturali. Ancora oggi, le domande che sorgono sulle motivazioni che spinsero la magistratura ad agire solamente in quell’anno e con una precisione chirurgica tale da lasciare intonso dalle inchieste giudiziarie solamente l’ex partito comunista, divenuto Pds dopo la svolta della Bolognina, non trovano risposta. Sarà la sinistra europeista, l’Ulivo di Romano Prodi, il garante dell’applicazione del vincolo esterno negli anni’90;  l’Euro e la terza ondata di privatizzazioni, verranno realizzati dal vero partito liberista italiano capeggiato da Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani e Romano Prodi  che si faranno vanto di aver regalato a gruppi di monopolisti interi settori del pubblico, rinunciando a tutti gli utili delle aziende pubbliche. 
 
Era necessario distruggere una classe dirigente, colpevole certamente di gravi misfatti, per lasciare spazio alla novità della struttura sovranazionale europea, presentata alla pubblica opinione come soluzione del male, rivelatasi in realtà un frutto avvelenato; la seconda Repubblica è stata la Repubblica di Maastricht, fagocitata dai parametri restrittivi di deficit e da un modello economico estraneo, antisociale del liberismo. Nasce la democrazia dei “ pianisti”, dei parlamentari che non sanno bene né il loro ruolo, né la loro funzione, ma pronti a votare qualsiasi cosa gli si ordini dai piani alti. La competenza e l’eloquio dei personaggi della prima repubblica sono sepolti nei ricordi di qualche nostalgico, avanzano la videocrazia del partito azienda di Silvio Berlusconi, e trionfa il modello del meno Stato, più mercato sposato dalla sinistra un tempo statalista. In questo meccanismo il potere giudiziario, agisce con precisione per rimuovere un blocco dirigenziale, sostituito da docili esecutori della globalizzazione, che avrebbe impedito e contrastato il salto nel vuoto.  
 
Non è senza significato, che ancora oggi la stampa più vicina e schierata con la magistratura, difenda Mani Pulite senza analizzarne le dinamiche e tentare di comprendere perché la pulizia si è fatta solo in quell’anno, escludendo un pezzo di classe dirigente, e tralasciando la sequela di eventi che hanno reso possibile l’introduzione del vincolo esterno, tanto da invocarlo quasi come unica alternativa plausibile. In questo l’ineffabile Marco Travaglio, è in prima fila, pronto a riportare indici di corruzione percepita, concetto inesistente scientificamente, di Trasparency International, un’organizzazione internazionale guarda caso fondata da tedeschi. La misura o il numero delle inchieste giudiziarie non provano necessariamente che un paese sia più corrotto di un altro, ma solo che il sistema di repressione giudiziaria di un determinato paese lavori di più o sia più efficace di altri. 
 
Gli unici paesi al mondo dove non sono presenti inchieste di corruzione sono le dittature, come il caso della Corea del Nord. Le cronache di questi giorni mostrano come l’inchiesta giudiziaria, ribattezzata dalla Procura di Roma “ Mondo di Mezzo”, metta a nudo un sistema mafioso che riusciva ad influenzare gli appalti e la gestione dei servizi pubblici del Comune di Roma. Un’inchiesta che probabilmente è destinata ad allargarsi per toccare altre sponde politiche. Personaggi già noti alle cronache giudiziarie della Banda della Magliana, come Massimo Carminati ed Ernesto Diotallevi, ricompaiono ancora una volta, lasciando riflettere sulla funzionalità di essi, quasi che fossero mossi come pedine manovrate da strutture ben più altolocate. 
 
Non appare verosimile, che un tale meccanismo si sia messo in moto solamente negli ultimi anni; al contrario sembra di trovarsi di fronte ad un sistema collaudato che procedeva da decenni. L’interrogativo sorge sulla tempistica dell’intervento giudiziario: perché si colpisce un sistema di tali porzioni solamente in questo momento? L’impressione è quella di un intervento mirato per rimuovere dallo scenario politico  determinate figure, con un vuoto di potere che potrebbe essere colmato senza la necessaria legittimazione democratica, così come avvenne nel 1992. La corruzione e il senso di colpa sono ancora una volta il peso da gettare sulle spalle degli italiani, per fargli accettare l’ennesima rinuncia e sacrificio incombente ai quali forse saranno chiamati nei prossimi mesi. Sullo sfondo, i due partiti di opposizione (?) , Forza Italia e M5S, si stanno liquefacendo, il primo contiguo alla maggioranza di governo il secondo votato all’autodistruzione,  per lasciare campo aperto al partito che in questo momento è il fedele esecutore dell’agenda sovranazionale, il PD.
 
La terza Repubblica probabilmente è già nata nel 2011, quando il Capo dello Stato prese in mano la direzione della vita politica italiana e si fece portavoce di interessi sovranazionali, realizzando quella serie di passaggi che portano a destrutturare definitivamente gli ultimi residui democratici. In quest’ottica potrebbe essere vista l’inchiesta giudiziaria, come il completamento di un lavoro decennale mirato ad edificare una società autoritaria, svuotata di ogni contenuto o parvenza di legittimazione democratica. Se l’ipotesi di urne anticipate dovesse concretizzarsi già nel 2015, sorge il dubbio se saranno presenti avversari e interpreti di un’alternativa vera e reale alla logica del liberismo mercantilista.

venerdì 5 dicembre 2014

"Italia: il primo passo è recuperare la nostra sovranità psicologica". Vladimiro Giacché



"Si è distrutta l’economia mista e quel corretto bilanciamento tra pubblico e privato previsto nella nostra Costituzione"




Vladimiro Giacché.  Laurea in Filosofia alla Normale di Pisa. Economista e dirigente nel settore finanziario. Tra le sue opere più note, "Anschluss- L'annessione", nella quale racconta la deindustrializzazione della Germania dell'Est.
 
 
- Recentemente alla Camera è stato approvato il Jobs Act. Il Governo ha presentato il provvedimento come uno stimolo all’economia, che potrà ripartire grazie alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Quali saranno gli effetti del Jobs Act ?
 
In una situazione di crisi come quella odierna, aumentare la flessibilità in uscita e la libertà di licenziamento può avere degli effetti contrari a quello che viene predicato, ovvero un aumento della disoccupazione. Queste politiche sono coerenti con le riforme strutturaliche ci vengono domandate, poiché l’aumento dei disoccupati ingenera una maggiore pressione sulle persone che sono ancora al lavoro. Conseguentemente, è possibile ottenere una riduzione dei salari. Lo strumento della svalutazione interna, data la rigidità del cambio da un lato, e dall’altro le politiche fiscali restrittive che ci vengono imposte,  è l’unico strumento che resta per creare competitività.  Il Jobs Act e le iniziative sul mercato del lavoro vengono presentate come un modo per aumentare l’occupazione. Personalmente, credo che l’obbiettivo sia ben altro, ovvero una riduzione mirata dei salari. Bisognerebbe avere il coraggio di dirlo.  

 
- Il Jobs Act potrebbe essere definito un mini-job all’italiana, ispirato alle riforme Hartz tedesche del 2003. Considerate le differenze di welfare tra il sistema tedesco, che offre maggiori tutele e sostegno al reddito, e il Jobs Act italiano, privo delle garanzie necessarie, lei crede che questa possa essere l’arma finale per realizzare la deflazione salariale?
 
Condivido pienamente questo ragionamento. Mi sento di aggiungere alcuni elementi; l’agenda 2010 di Schroeder che mirava a una precarizzazione del mercato del lavoro tedesco era parte di una strategia mercantilistica. L’idea della riduzione della componente salari nel PIL, nasce dall’esigenza di maggiore competitività sui mercati internazionali per ottenere un aumento delle esportazioni. Le politiche mercantilistiche hanno l’esigenza imprescindibile, per essere fruttuose, che gli altri paesi adottino una politica economica differente. Se adottiamo contemporaneamente, in tutta Europa, politiche simili non otterremo l’effetto che ottenne la Germania allora. Avremo un’ulteriore riduzione della domanda interna, in calo già da tempo. E avremo la certezza di entrare in una fase di deflazione. La deflazione ha la caratteristica di aumentare il peso del debito, al contrario dell’inflazione che lo riduce. Con un rapporto debito/PIL che già oggi è 133%, la deflazione significa un serio rischio di default. E quindi l’adozione di queste politiche non migliorerà la situazione economica italiana, aggraverà le condizioni dei lavoratori, e metterà a serio rischio la sostenibilità del nostro debito.

 
- La Commissione Europea ha approvato la bozza di bilancio presentata dal Governo, impegnato nelle riforme strutturali. Come giudica la legge di stabilità? Secondo lei, si continua a puntare su manovre che stimolano solamente il lato dell’offerta?
 
 
Sulla legge di stabilità 2015 occorre fare un discorso complessivo. Per la prima volta, negli ultimi anni, il Governo ha contrattato qualcosa con le autorità europee. Si sono messi in discussione alcuni criteri di valutazione delle politiche fiscali. Va sottolineato che in questa fase noi non siamo più in una situazione nella quale dobbiamo ottemperare ai famosi criteri di Maastricht, ovvero il 3% deficit/PIL e il 60% debito/PIL, che (è opportuno ricordarlo) non hanno alcuna base scientifica.
Da quando il Parlamento italiano ha approvato il Fiscal Compact, inserendolo persino nella Costituzione, e in questo siamo stati gli unici in Europa, il nostro deficit dovrebbe essere pari a zero. Nel fiscal compact viene però lasciato un margine di manovra nei casi di recessione economica. Se la crescita reale differisce in negativo da quella potenziale, subentra la possibilità di un margine di manovra per il Governo, che entro certi limiti può indebitarsi per sostenere la crescita. Ma il criterio adoperato dalla Commissione Europea è il tasso di disoccupazione di  equilibrio. La Commissione Europea misura questo criterio con l’andamento storico della disoccupazione in Italia, compresi gli ultimi anni di crisi senza precedenti per il nostro Paese. Questo implica un tasso di disoccupazione di equilibrio inaccettabile e sempre più alto. Ad esempio, la Commissione calcolava nel 2009 il tasso al 7,5% e ora lo colloca al 10,8%, mentre per la Spagna si attesta al 20%.
È consentito un intervento pubblico soltanto se commisurato al raggiungimento di questo obiettivo, ogni politica volta ad ottenere un tasso di disoccupazione inferiore a quello di equilibrio è considerata inflazionistica. Oggi per l’Italia sarebbe quindi considerata inflazionistica anche una politica che mirasse a ridurre il tasso di disoccupazione al 9% anziché al 10,8% (prima della crisi eravamo al 6-7%) e ogni sforamento del deficit commisurato a quell’obbiettivo sarebbe considerato eccessivo! I margini per le politiche di bilancio, guidati come sono da questo criterio inaccettabile, sono quindi molti ristretti. E infatti la legge di stabilità, pur avendo ottenuto un piccolo sconto da Bruxelles, finisce per ridurre ancora una volta gli investimenti in conto capitale, ovvero gli investimenti pubblici.
 
 
- Il  Governo  punta alla dismissione di asset pubblici per un 0,7% di Pil, pari a circa 11 miliardi di euro. L’obbiettivo del Governo è quello di cedere Poste, ENAV, e Fs nel 2015. La logica per giustificare questo tipo di operazione, è quella di una riduzione del debito pubblico, nonostante nelle passate cessioni di partecipazioni non si sia riscontrata una diminuzione del debito. Quali saranno gli effetti delle dismissioni?
 
Questo purtroppo è un film già visto negli anni’90. All’epoca dismettemmo asset pubblici per un valore di circa 110 miliardi di Euro. Negli anni Novanta abbiamo avuto la palma di migliori privatizzatori del mondo. Purtroppo però l’effetto di queste privatizzazioni è stato disastroso sotto svariati profili.  Dalle società pubbliche si possono ottenere utili se ben gestite, mentre con una cessione i ricavi verranno annullati (facendo per contro aumentare la dipendenza dall’estero se gli acquirenti sono stranieri). Si è distrutta l’economia mista, caratteristica del nostro Paese, e quindi quel bilanciamento tra privato e pubblico che aveva consentito gli anni di maggior sviluppo industriale del dopoguerra. Oggi, proprio perché siamo stati così “bravi” in passato, è rimasto ben poco da privatizzare, e infatti le cifre di cui si parla sono abbastanza modeste in termini economici assoluti. Personalmente trovo le dismissioni annunciate irrealistiche, e neppure auspicabili.  Tra l’altro va sottolineato che non esiste alcuna prova empirica nella letteratura economica internazionale che confermi  la tesi che una società privata  sia gestita meglio di una società pubblica.
 
 
 - Lei ha sottolineato la necessità di un ritorno ad una sovranità “ psicologica” nell’Europa del Sud. Vede attualmente forze politiche in grado di realizzare questo passaggio fondamentale nel Sud Europa e come pensa che deflagrerà l’unione monetaria?
 
Storicamente è accaduto che unioni monetarie, di cui facevano parte economie con caratteristiche divergenti, siano rimaste in piedi. Queste divergenze non hanno fatto automaticamente saltare le unioni monetarie: un buon esempio è rappresentato dall’Italia postunitaria, un altro – più recente – dall’unificazione della Germania. Oltretutto, in uno scenario di ipotetica dissoluzione, avremmo alcuni paesi che acquisterebbero vantaggi e altri che ne perderebbero. È normale che le forze che non hanno interesse a sciogliere l’unione monetaria facciano di tutto per scongiurare questa possibilità. Meno normale è che l’unione monetaria sia difesa anche da chi non ne sta traendo vantaggio, come accade al nostro Paese. 
Esiste un problema di sovranità “psicologica”: nel corso degli anni ho maturato questa convinzione. Nel mio libro “ Anschluss”, che ha ad oggetto l’unificazione monetaria e poi anche politica della Germania, rilevo un aspetto che mi ha molto colpito. Il 72% dei cittadini della Germania dell’Est ancora alla fine del’89, secondo i sondaggi (occidentali) dell’epoca, voleva conservare l’indipendenza e introdurre un sistema democratico; ma si dichiarava contrario a costruire un unico stato con la Germania dell’Ovest. 
Successivamente, nel febbraio 1990, quando Kohl propone di estendere il marco dell’Ovest alla Germania dell’Est, l’opinione pubblica cambia idea per i vantaggi in termine di potere d’acquisto ottenuti dai consumatori della Germania Est grazie ad un cambio più favorevole. 
A quel punto si verifica un vero e proprio terremoto nell’opinione pubblica tedesca-orientale, che rigetta ogni aspetto della RDT. Poi, col passare del tempo, il “regalo” del marco ovest si rivela un frutto avvelenato, perché comporta un aumento dei prezzi che mette fuori mercato i prodotti dell’est e innesca una massiccia deindustrializzazione. 
Anche da noi vedo un odio nei confronti di noi stessi e un’adorazione del vincolo esterno come soluzione ai nostri problemi. Atteggiamenti che si uniscono alla ingenua convinzione che “in Europa” le cose vadano sempre e per forza meglio.  Così si perde completamente di vista che i nostri problemi sono anche il risultato di politiche sbagliate a livello europeo. 
Questo atteggiamento è pericolosissimo ed è il primo nemico da battere.

lunedì 1 dicembre 2014

La lezione di Keynes: la pax europea non passa da Maastricht, ma dal suo superamento


Le politiche keynesiane sono il futuro

Definirsi keynesiano, oggi, non appare più come un’affermazione sacrilega o passatista. Le teorie economiche di John Maynard Keynes, uno degli economisti più importanti del XX secolo, intellettuale arguto, raffinato a tutto tondo i cui interessi toccavano la filosofia, la matematica e le scienze sociali, sono di estrema attualità per comprendere le ragioni di una crisi economica senza precedenti nella storia economica recente degli ultimi cento anni.

Keynes, negli anni’20 del secolo scorso, seppe rompere l’ortodossia dominante della scuola neoclassica, erede degli insegnamenti di John Stuart Mill e Ricardo, mettendo in discussione il principio dominante del laissez-faire, la legge di Say, secondo la quale è l’offerta a determinare la domanda e non il contrario. Keynes rovescia questa relazione per elaborare il principio della domanda effettiva, dove è la domanda a creare l’offerta e non viceversa. Se la domanda non sarà stimolata adeguatamente tramite l’ausilio di investimenti pubblici e della spesa statale, avremo sempre una disparità, un’ineguaglianza incolmabile tra domanda e offerta, e la disoccupazione sarà sempre un elemento costante nelle economie degli Stati.

Un buon economista, secondo Keynes, non deve considerare solamente l’astrattezza delle teorie economiche, ma porle in relazione con la realtà, plasmarle per donare l’effettività e l’efficacia che una determinata politica economica non può non avere. Gli economisti neoclassici dell’epoca, accolsero con ostilità e chiusura dottrinale le teorie keynesiane, arrivando a considerarle eretiche e prive di fondamento scientifico. La storia successivamente darà ragione a Keynes, poiché la sua dottrina economica che toccherà l’apice nel suo testo  “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta“ del 1936 rappresenterà per le future generazioni, il caposaldo della macroeconomia moderna.

Il bozzolo dell’economia mista sboccia nelle idee keynesiane, arrivando a scuotere i governi e i politici degli anni’20 e ’30, definiti dall’economista britannico dei “pazzi al potere” che si rifiutavano di considerare l’inefficacia delle politiche economiche non interventiste, basate sull’astensionismo statale e incoraggianti una bassa propensione al consumo, conseguenza diretta della disoccupazione sistemica. Le critiche ai politici  non erano lesinate, celebri i suoi attacchi a Woodrow Wilson, a Lloyd George con il quale poi si riconcilierà, e a Winston Churchill, reo di aver accettato una parità aurea troppo onerosa per la Gran Bretagna, pagando lo scotto di una disoccupazione più alta.

Una delle sue opere più importanti e magnifiche, “Le conseguenze economiche della pace” del 1919, preconizza gli effetti disastrosi che avrà il Trattato di Versailles ( firmato dagli Stati belligeranti nel 1919 al termine della prima guerra mondiale)  sui paesi sconfitti, la Germania su tutti, costretta a pagare riparazioni di guerra ingentissime, tanto da causare l’iperinflazione successiva nell’economia tedesca dilaniata dall’alta disoccupazione. Inascoltato dagli Stati vincitori, Keynes che aveva preso parte alla Conferenza di Versailles come principale rappresentante del governo inglese per le questioni finanziarie, si dimise in polemica con i contenuti dell’accordo  e scrisse questo pamphlet in polemica con le politiche scellerate degli Stati vincitori.

Nella sua lettera al primo ministro Lloyd George scriverà : ”Debbo informarla che sabato scivolo via dalla scena di questo incubo.. Ho sperato anche in queste ultime orribili settimane che lei potesse riuscire a fare del Trattato (di Pace) un documento giusto e utile.. Ma ora a quanto pare è tardi. La battaglia è persa. Lascio ai gemelli (Wilson e Clemenceau, ndr) di godersi la devastazione dell’Europa.."  Le sue previsioni si riveleranno fondate, e solo molti anni dopo, gli Stati vincitori decideranno di sospendere il pagamento delle riparazioni tedesche, quando ormai la Germania era già avviata verso la china dell’autoritarismo nazista.

La lezione che la storia lascia, non ha trovato udienza nelle stanze dei governanti contemporanei.

Un trattato internazionale, il Trattato di Maastricht del 1992, sta rischiando seriamente di minare la convivenza civile e sociale dei popoli europei mettendone a rischio la stabilità economica, e polverizzando lo stato sociale. I parametri di Maastricht, come è stato ribadito in più sedi da illustri economisti, non godono di alcuna validità scientifica, sono frutto dell’arbitrarietà ideologica del pensiero neoliberale, che mette al centro degli obbiettivi economici il contenimento della spesa e la riduzione dell’inflazione. Una combinazione che sta facendo deflagrare le economie europee, strette nella morsa della deflazione, e vittime della trappola della liquidità che Keynes aveva previsto nelle situazioni di recessione come quelle odierne. Gli investitori privati, non saranno stimolati all’investimento e all’immissione di liquidità nel circuito monetario, se non sufficientemente motivati da una prospettiva di rendimento. La penuria di investimenti genererà conseguentemente una disoccupazione più alta, una riduzione del consumo e un eccesso di risparmio privato. Il settore privato è paralizzato, in attesa che le previsioni economiche future cambino e il solo soggetto che può invertire la tendenza recessiva, è lo Stato, con una politica di aumento della spesa pubblica e di investimenti nei lavori pubblici. Quando il settore pubblico aumenta gli investimenti, i privati avranno più benefici dalle politiche di lavori pubblici;le imprese private riceveranno appalti, i livelli occupazionali saliranno come ben descritto dal moltiplicatore di Kahn, economista amico di Keynes, anche lui appartenente al “circus” di economisti keynesiani al quale partecipava anche il nostro Piero Sraffa.

La natura della crisi attuale è senza dubbio di origine finanziaria, i mercati borsistici sono stati deregolamentati da tempo e l’investimento privato si è spostato sui titoli, su operazioni speculative che non generano né un incremento di reddito collettivo, né tantomeno un aumento dell’occupazione, poiché distraggono risorse dall’economia reale. Tra il 1929 e oggi, ci sono analogie sull’origine della crisi, ma le soluzioni attuate più di ottant’anni fa, riuscirono ad invertire il ciclo solo attraverso l’indebitamento statale ed in questo le politiche keynesiane sono il futuro, l’applicazione dell’economia mista e l’abbandono del laissez-faire; il modello della costituzione economica che potrà portare il Paese fuori dal baratro.

Come osservò argutamente Keynes: “tirare in ballo oggi lo spettro dell’inflazione per negare l’opportunità di spendere di più in conto capitale, è come mettere in guardia contro i pericoli dell’obesità un paziente che sta lasciandosi deperire per dimagrimento". Le politiche economiche europee sono antistoriche, scaturiscono da un modello mercantilista che la storia aveva seppellito e sono state riportate in auge grazie alla campagna martellante delle elite che hanno fatto di tutto per scansare il keynesianesimo, fumo negli occhi,  e portare avanti la deregolamentazione economica e sociale delle società europee. Le argomentazioni logiche del liberismo economico sono simili a quelle del fatalismo cosmico, per le quali se un evento naturale come un terremoto o un’inondazione dovesse avere luogo, l’uomo non deve prendere provvedimenti né accorgimenti particolari per salvaguardarsi, ma deve rimanere spettatore passivo, inerme in attesa che tutto gli crolli addosso senza realizzare alcun tipo di intervento. Lo stesso avviene oggi, quando l’edificio ci sta crollando addosso perché si continuano ad abbatterne le fondamenta, senza che si facciano interventi di risanamento. Il nuovismo di Renzi  altro non è che un ritorno alla società vittoriana del XIX secolo inglese, tra disparità sociali fortissime, diritti dei lavoratori calpestati e vilipesi,  una sanità pubblica assente, e il reddito complessivo accumulato nelle mani di pochi capitalisti finanziari. Sono questi a dover scomparire, i “rentier”, gli speculatori finanziari che Keynes considerava come accumulatori di risorse a discapito dell’economia reale, allontanando i capitali dagli investimenti produttivi.
E’ questa forse la lezione più preziosa che il grande economista ci lascia; il ritorno all’economia mista sostenibile e di sviluppo che aveva per più di un quarantennio assicurato benessere e crescita economica all’Italia, prima di legarsi ad un modello economico retrivo e deflazionistico che sta prosciugando lo Stato sociale.

Il Trattato di Versailles del 1919  addossava alla Germania sanzioni ingiuste e onerose. Il Trattato di Maastricht oggi capovolge le parti , con la Germania in condizioni di dominio e preminenza sugli altri Stati membri, soccombenti per applicare un modello economico pensato e disegnato per il beneficio dello stato tedesco a discapito di tutti gli altri. L’auspicio è che non si ripeta l’errore di molti anni fa con Versailles, ignorando le conseguenze disastrose di accordi folli. Si impari dalla storia, si accantoni definitivamente un trattato che sta mettendo a rischio la pace e la stabilità sociale dell’Europa.

Il pensiero di Aldo Moro, delegato all’Assemblea Costituente del 1946, sono la sintesi perfetta del modello di riferimento della costituzione economica: “è effettivamente insostenibile la concezione liberale in materia economica, in quanto vi è necessità di un controllo in funzione dell'ordinamento più completo dell'economia mondiale, anche e soprattutto per raggiungere il maggiore benessere possibile. Quando si dice controllo della economia, non si intende però che lo Stato debba essere gestore di tutte le attività economiche, ma ci si riferisce allo Stato nella complessità dei suoi poteri e quindi in gran parte allo Stato che non esclude le iniziative individuali, ma le coordina, le disciplina e le orienta. Esprime la certezza che da questo controllo economico, nello Stato democratico, non nascerà un totalitarismo economico né politico. Lo Stato fascista non era uno Stato democratico, era anche nelle sue forme di controllo uno Stato delle classi capitalistiche, le quali non tutelavano gli interessi della collettività, ma tutelavano gli interessi della classe che rappresentavano. Non è possibile permettere che gli egoismi si affermino, ma è necessario porre la barriera dell'interesse collettivo come un orientamento e un controllo di carattere giuridico. Ed è nell'ambito di questo controllo che lo Stato permetterà delle iniziative individuali, finché rientrino nell'ordinamento generale, di svolgersi liberamente. E queste iniziative individuali sono consacrate con il riconoscimento della proprietà personale." L’europeismo e la pace tra gli stati europei non passa da Maastricht, ma dal suo superamento.