"Italia: il primo passo è recuperare la nostra sovranità psicologica". Vladimiro Giacché
"Si è distrutta l’economia mista e quel corretto bilanciamento tra pubblico e privato previsto nella nostra Costituzione"
Vladimiro Giacché. Laurea
in Filosofia alla Normale di Pisa. Economista e dirigente nel settore
finanziario. Tra le sue opere più note, "Anschluss- L'annessione", nella
quale racconta la deindustrializzazione della Germania dell'Est.
- Recentemente alla Camera è stato approvato il Jobs Act. Il
Governo ha presentato il provvedimento come uno stimolo all’economia,
che potrà ripartire grazie alla maggiore flessibilità del mercato del
lavoro. Quali saranno gli effetti del Jobs Act ?
In una situazione di crisi come quella odierna, aumentare la flessibilità in uscita e la libertà di licenziamento può avere degli effetti contrari a quello che viene predicato,
ovvero un aumento della disoccupazione. Queste politiche sono coerenti
con le riforme strutturaliche ci vengono domandate, poiché l’aumento dei
disoccupati ingenera una maggiore pressione sulle persone che sono
ancora al lavoro. Conseguentemente, è possibile ottenere una riduzione
dei salari. Lo strumento della svalutazione interna,
data la rigidità del cambio da un lato, e dall’altro le politiche
fiscali restrittive che ci vengono imposte, è l’unico strumento che
resta per creare competitività. Il Jobs Act e le iniziative sul mercato
del lavoro vengono presentate come un modo per aumentare l’occupazione.
Personalmente, credo che l’obbiettivo sia ben altro, ovvero una
riduzione mirata dei salari. Bisognerebbe avere il coraggio di dirlo.
- Il Jobs Act potrebbe essere definito un mini-job all’italiana,
ispirato alle riforme Hartz tedesche del 2003. Considerate le differenze
di welfare tra il sistema tedesco, che offre maggiori tutele e sostegno
al reddito, e il Jobs Act italiano, privo delle garanzie necessarie,
lei crede che questa possa essere l’arma finale per realizzare la
deflazione salariale?
Condivido pienamente questo ragionamento. Mi sento di
aggiungere alcuni elementi; l’agenda 2010 di Schroeder che mirava a una
precarizzazione del mercato del lavoro tedesco era parte di una
strategia mercantilistica. L’idea della riduzione della
componente salari nel PIL, nasce dall’esigenza di maggiore competitività
sui mercati internazionali per ottenere un aumento delle esportazioni.
Le politiche mercantilistiche hanno l’esigenza imprescindibile, per
essere fruttuose, che gli altri paesi adottino una politica economica
differente. Se adottiamo contemporaneamente, in tutta Europa, politiche
simili non otterremo l’effetto che ottenne la Germania allora. Avremo
un’ulteriore riduzione della domanda interna, in calo già da tempo. E avremo la certezza di entrare in una fase di deflazione.
La deflazione ha la caratteristica di aumentare il peso del debito, al
contrario dell’inflazione che lo riduce. Con un rapporto debito/PIL che
già oggi è 133%, la deflazione significa un serio rischio di default. E
quindi l’adozione di queste politiche non migliorerà la situazione
economica italiana, aggraverà le condizioni dei lavoratori, e metterà a
serio rischio la sostenibilità del nostro debito.
- La Commissione Europea ha approvato la bozza di bilancio
presentata dal Governo, impegnato nelle riforme strutturali. Come
giudica la legge di stabilità? Secondo lei, si continua a puntare su
manovre che stimolano solamente il lato dell’offerta?
Sulla legge di stabilità 2015 occorre fare un discorso complessivo. Per
la prima volta, negli ultimi anni, il Governo ha contrattato qualcosa
con le autorità europee. Si sono messi in discussione alcuni criteri di
valutazione delle politiche fiscali. Va sottolineato che in questa fase noi non siamo più in una situazione nella quale dobbiamo ottemperare ai famosi criteri di Maastricht, ovvero il 3% deficit/PIL e il 60% debito/PIL, che (è opportuno ricordarlo) non hanno alcuna base scientifica.
Da quando il Parlamento italiano ha approvato il Fiscal Compact, inserendolo persino nella Costituzione, e in questo siamo stati gli unici in Europa, il nostro deficit dovrebbe essere pari a zero. Nel fiscal compact viene però lasciato un margine di manovra nei casi di recessione economica. Se la crescita reale differisce in negativo da quella potenziale, subentra la possibilità di un margine di manovra per il Governo, che entro certi limiti può indebitarsi per sostenere la crescita. Ma il criterio adoperato dalla Commissione Europea è il tasso di disoccupazione di equilibrio. La Commissione Europea misura questo criterio con l’andamento storico della disoccupazione in Italia, compresi gli ultimi anni di crisi senza precedenti per il nostro Paese. Questo implica un tasso di disoccupazione di equilibrio inaccettabile e sempre più alto. Ad esempio, la Commissione calcolava nel 2009 il tasso al 7,5% e ora lo colloca al 10,8%, mentre per la Spagna si attesta al 20%.
È consentito un intervento pubblico soltanto se commisurato al raggiungimento di questo obiettivo, ogni politica volta ad ottenere un tasso di disoccupazione inferiore a quello di equilibrio è considerata inflazionistica. Oggi per l’Italia sarebbe quindi considerata inflazionistica anche una politica che mirasse a ridurre il tasso di disoccupazione al 9% anziché al 10,8% (prima della crisi eravamo al 6-7%) e ogni sforamento del deficit commisurato a quell’obbiettivo sarebbe considerato eccessivo! I margini per le politiche di bilancio, guidati come sono da questo criterio inaccettabile, sono quindi molti ristretti. E infatti la legge di stabilità, pur avendo ottenuto un piccolo sconto da Bruxelles, finisce per ridurre ancora una volta gli investimenti in conto capitale, ovvero gli investimenti pubblici.
Da quando il Parlamento italiano ha approvato il Fiscal Compact, inserendolo persino nella Costituzione, e in questo siamo stati gli unici in Europa, il nostro deficit dovrebbe essere pari a zero. Nel fiscal compact viene però lasciato un margine di manovra nei casi di recessione economica. Se la crescita reale differisce in negativo da quella potenziale, subentra la possibilità di un margine di manovra per il Governo, che entro certi limiti può indebitarsi per sostenere la crescita. Ma il criterio adoperato dalla Commissione Europea è il tasso di disoccupazione di equilibrio. La Commissione Europea misura questo criterio con l’andamento storico della disoccupazione in Italia, compresi gli ultimi anni di crisi senza precedenti per il nostro Paese. Questo implica un tasso di disoccupazione di equilibrio inaccettabile e sempre più alto. Ad esempio, la Commissione calcolava nel 2009 il tasso al 7,5% e ora lo colloca al 10,8%, mentre per la Spagna si attesta al 20%.
È consentito un intervento pubblico soltanto se commisurato al raggiungimento di questo obiettivo, ogni politica volta ad ottenere un tasso di disoccupazione inferiore a quello di equilibrio è considerata inflazionistica. Oggi per l’Italia sarebbe quindi considerata inflazionistica anche una politica che mirasse a ridurre il tasso di disoccupazione al 9% anziché al 10,8% (prima della crisi eravamo al 6-7%) e ogni sforamento del deficit commisurato a quell’obbiettivo sarebbe considerato eccessivo! I margini per le politiche di bilancio, guidati come sono da questo criterio inaccettabile, sono quindi molti ristretti. E infatti la legge di stabilità, pur avendo ottenuto un piccolo sconto da Bruxelles, finisce per ridurre ancora una volta gli investimenti in conto capitale, ovvero gli investimenti pubblici.
- Il Governo punta alla dismissione di asset pubblici per un 0,7%
di Pil, pari a circa 11 miliardi di euro. L’obbiettivo del Governo è
quello di cedere Poste, ENAV, e Fs nel 2015. La logica per giustificare
questo tipo di operazione, è quella di una riduzione del debito
pubblico, nonostante nelle passate cessioni di partecipazioni non si sia
riscontrata una diminuzione del debito. Quali saranno gli effetti delle
dismissioni?
Questo purtroppo è un film già visto negli anni’90.
All’epoca dismettemmo asset pubblici per un valore di circa 110 miliardi
di Euro. Negli anni Novanta abbiamo avuto la palma di migliori
privatizzatori del mondo. Purtroppo però l’effetto di queste
privatizzazioni è stato disastroso sotto svariati profili. Dalle
società pubbliche si possono ottenere utili se ben gestite, mentre con
una cessione i ricavi verranno annullati (facendo per contro aumentare
la dipendenza dall’estero se gli acquirenti sono stranieri). Si è distrutta l’economia mista,
caratteristica del nostro Paese, e quindi quel bilanciamento tra
privato e pubblico che aveva consentito gli anni di maggior sviluppo
industriale del dopoguerra. Oggi, proprio perché siamo stati così
“bravi” in passato, è rimasto ben poco da privatizzare, e infatti le
cifre di cui si parla sono abbastanza modeste in termini economici
assoluti. Personalmente trovo le dismissioni annunciate irrealistiche,
e neppure auspicabili. Tra l’altro va sottolineato che non esiste
alcuna prova empirica nella letteratura economica internazionale che
confermi la tesi che una società privata sia gestita meglio di una
società pubblica.
- Lei ha sottolineato la necessità di un ritorno ad una sovranità “
psicologica” nell’Europa del Sud. Vede attualmente forze politiche in
grado di realizzare questo passaggio fondamentale nel Sud Europa e come
pensa che deflagrerà l’unione monetaria?
Storicamente è accaduto che unioni monetarie, di cui facevano parte
economie con caratteristiche divergenti, siano rimaste in piedi. Queste
divergenze non hanno fatto automaticamente saltare le unioni monetarie:
un buon esempio è rappresentato dall’Italia postunitaria, un altro – più
recente – dall’unificazione della Germania. Oltretutto, in uno scenario
di ipotetica dissoluzione, avremmo alcuni paesi che acquisterebbero
vantaggi e altri che ne perderebbero. È normale che le forze che non
hanno interesse a sciogliere l’unione monetaria facciano di tutto per
scongiurare questa possibilità. Meno normale è che l’unione monetaria
sia difesa anche da chi non ne sta traendo vantaggio, come accade al
nostro Paese.
Esiste un problema di sovranità “psicologica”: nel
corso degli anni ho maturato questa convinzione. Nel mio libro “
Anschluss”, che ha ad oggetto l’unificazione monetaria e poi anche
politica della Germania, rilevo un aspetto che mi ha molto colpito. Il
72% dei cittadini della Germania dell’Est ancora alla fine del’89,
secondo i sondaggi (occidentali) dell’epoca, voleva conservare
l’indipendenza e introdurre un sistema democratico; ma si dichiarava
contrario a costruire un unico stato con la Germania dell’Ovest.
Successivamente, nel febbraio 1990, quando Kohl propone di estendere il
marco dell’Ovest alla Germania dell’Est, l’opinione pubblica cambia
idea per i vantaggi in termine di potere d’acquisto ottenuti dai
consumatori della Germania Est grazie ad un cambio più favorevole.
A quel punto si verifica un vero e proprio terremoto nell’opinione
pubblica tedesca-orientale, che rigetta ogni aspetto della RDT. Poi, col
passare del tempo, il “regalo” del marco ovest si rivela un frutto avvelenato,
perché comporta un aumento dei prezzi che mette fuori mercato i
prodotti dell’est e innesca una massiccia deindustrializzazione.
Anche da noi vedo un odio nei confronti di noi stessi e un’adorazione
del vincolo esterno come soluzione ai nostri problemi. Atteggiamenti che
si uniscono alla ingenua convinzione che “in Europa” le cose vadano
sempre e per forza meglio. Così si perde completamente di vista che i
nostri problemi sono anche il risultato di politiche sbagliate a livello
europeo.
Questo atteggiamento è pericolosissimo ed è il primo nemico da battere.
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