venerdì 5 dicembre 2014

"Italia: il primo passo è recuperare la nostra sovranità psicologica". Vladimiro Giacché



"Si è distrutta l’economia mista e quel corretto bilanciamento tra pubblico e privato previsto nella nostra Costituzione"




Vladimiro Giacché.  Laurea in Filosofia alla Normale di Pisa. Economista e dirigente nel settore finanziario. Tra le sue opere più note, "Anschluss- L'annessione", nella quale racconta la deindustrializzazione della Germania dell'Est.
 
 
- Recentemente alla Camera è stato approvato il Jobs Act. Il Governo ha presentato il provvedimento come uno stimolo all’economia, che potrà ripartire grazie alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Quali saranno gli effetti del Jobs Act ?
 
In una situazione di crisi come quella odierna, aumentare la flessibilità in uscita e la libertà di licenziamento può avere degli effetti contrari a quello che viene predicato, ovvero un aumento della disoccupazione. Queste politiche sono coerenti con le riforme strutturaliche ci vengono domandate, poiché l’aumento dei disoccupati ingenera una maggiore pressione sulle persone che sono ancora al lavoro. Conseguentemente, è possibile ottenere una riduzione dei salari. Lo strumento della svalutazione interna, data la rigidità del cambio da un lato, e dall’altro le politiche fiscali restrittive che ci vengono imposte,  è l’unico strumento che resta per creare competitività.  Il Jobs Act e le iniziative sul mercato del lavoro vengono presentate come un modo per aumentare l’occupazione. Personalmente, credo che l’obbiettivo sia ben altro, ovvero una riduzione mirata dei salari. Bisognerebbe avere il coraggio di dirlo.  

 
- Il Jobs Act potrebbe essere definito un mini-job all’italiana, ispirato alle riforme Hartz tedesche del 2003. Considerate le differenze di welfare tra il sistema tedesco, che offre maggiori tutele e sostegno al reddito, e il Jobs Act italiano, privo delle garanzie necessarie, lei crede che questa possa essere l’arma finale per realizzare la deflazione salariale?
 
Condivido pienamente questo ragionamento. Mi sento di aggiungere alcuni elementi; l’agenda 2010 di Schroeder che mirava a una precarizzazione del mercato del lavoro tedesco era parte di una strategia mercantilistica. L’idea della riduzione della componente salari nel PIL, nasce dall’esigenza di maggiore competitività sui mercati internazionali per ottenere un aumento delle esportazioni. Le politiche mercantilistiche hanno l’esigenza imprescindibile, per essere fruttuose, che gli altri paesi adottino una politica economica differente. Se adottiamo contemporaneamente, in tutta Europa, politiche simili non otterremo l’effetto che ottenne la Germania allora. Avremo un’ulteriore riduzione della domanda interna, in calo già da tempo. E avremo la certezza di entrare in una fase di deflazione. La deflazione ha la caratteristica di aumentare il peso del debito, al contrario dell’inflazione che lo riduce. Con un rapporto debito/PIL che già oggi è 133%, la deflazione significa un serio rischio di default. E quindi l’adozione di queste politiche non migliorerà la situazione economica italiana, aggraverà le condizioni dei lavoratori, e metterà a serio rischio la sostenibilità del nostro debito.

 
- La Commissione Europea ha approvato la bozza di bilancio presentata dal Governo, impegnato nelle riforme strutturali. Come giudica la legge di stabilità? Secondo lei, si continua a puntare su manovre che stimolano solamente il lato dell’offerta?
 
 
Sulla legge di stabilità 2015 occorre fare un discorso complessivo. Per la prima volta, negli ultimi anni, il Governo ha contrattato qualcosa con le autorità europee. Si sono messi in discussione alcuni criteri di valutazione delle politiche fiscali. Va sottolineato che in questa fase noi non siamo più in una situazione nella quale dobbiamo ottemperare ai famosi criteri di Maastricht, ovvero il 3% deficit/PIL e il 60% debito/PIL, che (è opportuno ricordarlo) non hanno alcuna base scientifica.
Da quando il Parlamento italiano ha approvato il Fiscal Compact, inserendolo persino nella Costituzione, e in questo siamo stati gli unici in Europa, il nostro deficit dovrebbe essere pari a zero. Nel fiscal compact viene però lasciato un margine di manovra nei casi di recessione economica. Se la crescita reale differisce in negativo da quella potenziale, subentra la possibilità di un margine di manovra per il Governo, che entro certi limiti può indebitarsi per sostenere la crescita. Ma il criterio adoperato dalla Commissione Europea è il tasso di disoccupazione di  equilibrio. La Commissione Europea misura questo criterio con l’andamento storico della disoccupazione in Italia, compresi gli ultimi anni di crisi senza precedenti per il nostro Paese. Questo implica un tasso di disoccupazione di equilibrio inaccettabile e sempre più alto. Ad esempio, la Commissione calcolava nel 2009 il tasso al 7,5% e ora lo colloca al 10,8%, mentre per la Spagna si attesta al 20%.
È consentito un intervento pubblico soltanto se commisurato al raggiungimento di questo obiettivo, ogni politica volta ad ottenere un tasso di disoccupazione inferiore a quello di equilibrio è considerata inflazionistica. Oggi per l’Italia sarebbe quindi considerata inflazionistica anche una politica che mirasse a ridurre il tasso di disoccupazione al 9% anziché al 10,8% (prima della crisi eravamo al 6-7%) e ogni sforamento del deficit commisurato a quell’obbiettivo sarebbe considerato eccessivo! I margini per le politiche di bilancio, guidati come sono da questo criterio inaccettabile, sono quindi molti ristretti. E infatti la legge di stabilità, pur avendo ottenuto un piccolo sconto da Bruxelles, finisce per ridurre ancora una volta gli investimenti in conto capitale, ovvero gli investimenti pubblici.
 
 
- Il  Governo  punta alla dismissione di asset pubblici per un 0,7% di Pil, pari a circa 11 miliardi di euro. L’obbiettivo del Governo è quello di cedere Poste, ENAV, e Fs nel 2015. La logica per giustificare questo tipo di operazione, è quella di una riduzione del debito pubblico, nonostante nelle passate cessioni di partecipazioni non si sia riscontrata una diminuzione del debito. Quali saranno gli effetti delle dismissioni?
 
Questo purtroppo è un film già visto negli anni’90. All’epoca dismettemmo asset pubblici per un valore di circa 110 miliardi di Euro. Negli anni Novanta abbiamo avuto la palma di migliori privatizzatori del mondo. Purtroppo però l’effetto di queste privatizzazioni è stato disastroso sotto svariati profili.  Dalle società pubbliche si possono ottenere utili se ben gestite, mentre con una cessione i ricavi verranno annullati (facendo per contro aumentare la dipendenza dall’estero se gli acquirenti sono stranieri). Si è distrutta l’economia mista, caratteristica del nostro Paese, e quindi quel bilanciamento tra privato e pubblico che aveva consentito gli anni di maggior sviluppo industriale del dopoguerra. Oggi, proprio perché siamo stati così “bravi” in passato, è rimasto ben poco da privatizzare, e infatti le cifre di cui si parla sono abbastanza modeste in termini economici assoluti. Personalmente trovo le dismissioni annunciate irrealistiche, e neppure auspicabili.  Tra l’altro va sottolineato che non esiste alcuna prova empirica nella letteratura economica internazionale che confermi  la tesi che una società privata  sia gestita meglio di una società pubblica.
 
 
 - Lei ha sottolineato la necessità di un ritorno ad una sovranità “ psicologica” nell’Europa del Sud. Vede attualmente forze politiche in grado di realizzare questo passaggio fondamentale nel Sud Europa e come pensa che deflagrerà l’unione monetaria?
 
Storicamente è accaduto che unioni monetarie, di cui facevano parte economie con caratteristiche divergenti, siano rimaste in piedi. Queste divergenze non hanno fatto automaticamente saltare le unioni monetarie: un buon esempio è rappresentato dall’Italia postunitaria, un altro – più recente – dall’unificazione della Germania. Oltretutto, in uno scenario di ipotetica dissoluzione, avremmo alcuni paesi che acquisterebbero vantaggi e altri che ne perderebbero. È normale che le forze che non hanno interesse a sciogliere l’unione monetaria facciano di tutto per scongiurare questa possibilità. Meno normale è che l’unione monetaria sia difesa anche da chi non ne sta traendo vantaggio, come accade al nostro Paese. 
Esiste un problema di sovranità “psicologica”: nel corso degli anni ho maturato questa convinzione. Nel mio libro “ Anschluss”, che ha ad oggetto l’unificazione monetaria e poi anche politica della Germania, rilevo un aspetto che mi ha molto colpito. Il 72% dei cittadini della Germania dell’Est ancora alla fine del’89, secondo i sondaggi (occidentali) dell’epoca, voleva conservare l’indipendenza e introdurre un sistema democratico; ma si dichiarava contrario a costruire un unico stato con la Germania dell’Ovest. 
Successivamente, nel febbraio 1990, quando Kohl propone di estendere il marco dell’Ovest alla Germania dell’Est, l’opinione pubblica cambia idea per i vantaggi in termine di potere d’acquisto ottenuti dai consumatori della Germania Est grazie ad un cambio più favorevole. 
A quel punto si verifica un vero e proprio terremoto nell’opinione pubblica tedesca-orientale, che rigetta ogni aspetto della RDT. Poi, col passare del tempo, il “regalo” del marco ovest si rivela un frutto avvelenato, perché comporta un aumento dei prezzi che mette fuori mercato i prodotti dell’est e innesca una massiccia deindustrializzazione. 
Anche da noi vedo un odio nei confronti di noi stessi e un’adorazione del vincolo esterno come soluzione ai nostri problemi. Atteggiamenti che si uniscono alla ingenua convinzione che “in Europa” le cose vadano sempre e per forza meglio.  Così si perde completamente di vista che i nostri problemi sono anche il risultato di politiche sbagliate a livello europeo. 
Questo atteggiamento è pericolosissimo ed è il primo nemico da battere.

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