venerdì 21 novembre 2014

La società autoritaria dell'Homo Europeus


 

L’illusione di cui molti, purtroppo, non hanno ancora preso coscienza.




In una pellicola di qualche tempo fa intitolata “L’uomo che fuggì dal futuro”( titolo originale THX1138) viene descritta una società autoritaria dove gli uomini sono ridotti a operai dediti alla catena di montaggio di automi, e il consumo di droghe è prescritto e imposto dalle oligarchie per mantenere i ritmi di lavoro costanti, in modo tale che gli uomini ridotti a funzione della catena di montaggio non diminuiscano il livello della produzione. Il protagonista impersonato da Robert Duvall vive con una compagna di stanza scelta dalla centrale di comando e le droghe che sono somministrate ad entrambi hanno l’effetto di sopprimere le emozioni e i sentimenti che potrebbero sbocciare tra i due. 
 
I protagonisti decidono di non utilizzare le droghe e tra loro nasce un sentimento che la gerarchia autoritaria decide presto di processare con un dibattimento telematizzato per poi separare definitivamente i due. Questo modello di società etero-diretta secondo la quale l’uomo è un mero prodotto senza personalità privo delle facoltà emozionali e intellettive che gli consentono la realizzazione personale e affettiva assomiglia sempre di più in maniera quasi profetica alla società in cui l’Homo Europeus è stato progettato per vivere in ogni aspetto della sua vita quotidiana programmato fin dalla sua nascita. 
 
Se effettivamente gli stati non debbono più esistere, e l’estinzione delle lingue, dei costumi, delle tradizioni, delle frontiere, e dei diritti sociali sono stati scientemente messi in atto nell’ultimo quarantennio per dare vita a un conglomerato senza alcuna identità e legame dai popoli che lo compongono, nasce quindi un contesto dove l’uomo non è più cittadino, e non appare più in grado di determinare il suo svolgimento sociale ed economico, ma il suo percorso è già stato deciso in ogni sua parte.

La gerarchia sovranazionale, tramite le sue parti operative come la Commissione Europea, ha ormai in mano tutti gli strumenti per decidere sia della vita economica di uno Stato, attraverso il potere sanzionatorio sui limiti di deficit usato discrezionalmente solamente nei riguardi di chi ha meno peso specifico nell’UE, sia riguardo all’agricoltura e all’alimentazione dei popoli europei passando per l’imposizione forzata sull’uso degli OGM. La raffinatezza , e forse una delle chiavi che hanno reso possibile la realizzazione di un tale progetto, è il non conoscere chi effettivamente detiene il potere decisionale, poiché persino quello che ufficialmente è il vero Governo esecutivo, la Commissione Europea, obbedisce a logiche di lobby e multinazionali che comandano le direttive ed i regolamenti più aderenti ai propri interessi e si ottiene così un sistema piramidale a compartimenti stagni, dove il livello più basso rappresenta la manodopera che deve eseguire senza forse nemmeno capire del tutto cosa stia facendo. La cosiddetta casta è senz’altro uno dei livelli più bassi chiamati ad eseguire le direttive, e incarna il perfetto parafulmine destinato ad addossarsi le colpe dell’intero fallimento economico e sociale, sempre con lo stesso binomio debito pubblico/corruzione tanto caro anche a quella parte del giornalismo italiano che si dichiara antisistemica, così da poter garantire l’anonimato ai veri dominus dell’economia mondiale e dei processi decisionali, che si sono da tempo trasferiti ben lontani da Roma. 
 
L’aspetto su cui riflettere e che forse appare più sorprendente è come sia possibile, anche a discapito di una limitata conoscenza economica e giuridica, che una parte dei popoli europei abbia accettato e continui ad accettare questo stato di cose che sta cancellando giorno dopo giorno tutti i diritti sociali che erano stati conquistati in passato a caro prezzo? Sembra impossibile non accorgersi della realtà quotidiana per chi la vive, eppure il pensiero delle masse sembra anestetizzato, non un moto di ribellione ardente e incisivo è ancora riuscito a scalfire l’edificio costruito dagli architetti dell’élite sovranazionale. Non è neppure di aiuto ricordare i dati economici che abbiamo spesso elencato in  passato e che non fanno altro che confermare l’enorme impoverimento che hanno sofferto gli europei. 
 
In una conferenza all’Università di Berkeley del 1962, Aldous Huxley fornisce quella che potrebbe essere la corretta chiave di lettura: ”Mi sembra che la natura della più recente rivoluzione sia precisamente questa: siamo sul punto di sviluppare una serie di tecniche che permetteranno all’oligarchia regnante che è sempre esistita e probabilmente continuerà ad esistere, di portare le persone ad adorare la loro condizione di servitù. Questo è lo scopo finale delle “rivoluzioni maligne” come potremmo chiamarle, e questo è un problema a cui mi sono interessato per anni e ho scritto anche un romanzo in proposito, Il mondo nuovo, dove racconto una società che utilizza tutti gli strumenti a disposizione per standardizzare la popolazione, per appianare le differenze umane più sconvenienti in modo da creare modelli di massa di esseri umani organizzati in un sistema scientifico programmato. Ho dovuto notare con incredibile sconcerto, che le previsioni che ho fatto in passato e immaginato nel mio romanzo, le quali sembravano essere puramente fantastiche, sono vere o si stanno per realizzare”. 
 
Se dunque questa società standardizzata descritta da Huxley spinge i suoi componenti paradossalmente a difendere la propria condizione di sottomissione, lo si deve anche e soprattutto all’uso di tecniche e strumenti che negli anni si sono fatti sempre più raffinati grazie anche a un massiccio uso della tecnologia. L’esempio più recente viene dalle code che si creano per accaparrarsi gli Iphone 6, con gli oggetti tecnologici divenuti veri e propri feticci senza i quali le persone si sentono escluse. Senza dimenticare i modelli di uomo e donna imposti dai mass media, basati sull’apparenza e sull’effimero, che grazie agli strumenti citati da Huxley posseduti dall’oligarchia come i mass media, la carta stampata, ed il cinema che permettono la programmazione scientifica dell’uomo sulla base di un modello funzionale alle elite, anestetizzato e privo di pensiero critico. È questa la ragione per cui le differenze tra le diverse culture sono detestate e se ne ordina la distruzione. Si tratta di un’illusione di cui molti, purtroppo, non hanno ancora preso coscienza. 
 
Il protagonista del film che abbiamo citato sopra, riesce alla fine a fuggire dalla società programmata per accedere a una zona che non è controllata dall’oligarchia ed appare la vista di una magnifica alba. Ci piacerebbe pensare che sia ancora possibile anche per gli uomini europei fuggire dall'illusione dell'Homo Europeus e vedere sorgere una nuova alba.

giovedì 20 novembre 2014

Che l'uscita dall'euro non avvenga con una gestione tecnocratica




L'obiettivo è quello del commissariamento dell'Italia nella fase di transizione alla lira...




Da diverse settimane si susseguono gli avvertimenti della stampa estera economica e degli addetti ai lavori, che annunciano una fine imminente dell’eurozona. Se proviamo a leggere tra le righe di questi messaggi, potremmo dire che qualcuno dai piani alti abbia già deciso per noi come e quando dovremo uscire da questo supplizio, con il rischio concreto di trovarci in mano una vittoria di Pirro. 

L’ex-ministro delle Finanze Vincenzo Visco ha dichiarato:” il rischio di disintegrazione dell’euro riguarda tutti i Paesi del Sud e potenzialmente anche la Francia. E se si disintegra l’euro, fanno default tutti.” La prima parte dell’analisi è senz’altro corretta, la seconda meno perché in caso di uscita dall’unione monetaria, non è affatto detto che lo Stato che assuma tale decisione debba dichiarare default sul proprio debito sovrano, avendo la facoltà di riconvertire il debito nella valuta nazionale, nel caso italiano la nuova lira, con l’applicazione della cara vecchia lex monetae. Chi accetta la riconversione sarà pagato in una valuta diversa da quella originaria, chi non accetta rimarrà all’asciutto. L’ipotesi che stiamo discutendo prevede che nell’eventuale uscita del domani ci sia un governo che abbia una chiara strategia, una precisa volontà di uscita ragionata e ordinata. 

Nella contemporaneità della politica italiana, mera esecutrice di ordini sovranazionali, è lecito pensare che le cose non vadano nella direzione auspicata e auspicabile, ma si pensi a un’uscita sgangherata, disordinata dove in pochi capiranno la catena di eventi che si susseguiranno rapidamente, rimanendone inevitabilmente travolti.  Sappiamo che i poteri sovranazionali mirano a un commissariamento del nostro Paese, e attendono pazienti che gli si presenti il casus belli, per inviare le lettere di diffida già redatte e pronte nei cassetti delle scrivanie di Bruxelles. 

Un’occasione potrebbe presentarsi con la legge di stabilità, per la quale Kaitanen, commissario UE per gli affari economici e monetari, ha fatto sapere che ci sono dei profili di irregolarità per ciò che attiene al disavanzo strutturale, da ridurre secondo Bruxelles, e questo non rappresenta una novità visto che si chiedono tagli alla spesa in misura sempre maggiori. Gli stessi poteri generalmente si servono di manovalanza che deve indossare i panni del macellaio sociale, prima Monti, Letta e ora Renzi, e finora quando questi personaggi hanno portato a termine il loro lavoro, o non lo hanno fatto nella misura richiesta, sono stati gentilmente accompagnati alla porta e scaricati, perché oramai divenuti inservibili. 

L’ultimo in ordine cronologico, Renzi, sta portando avanti l’agenda assegnatagli, anche se l’art.18 non è stato ancora abrogato, resta da realizzare l’agognata svalutazione salariare da tempo domandata dai gruppi industriali delocalizzatori, e forse dopo l’approvazione o meno del Jobs Act potrebbe verificarsi già un primo avvicendamento nelle stanze dei bottoni, con un Napolitano pronto alle dimissioni a dicembre o gennaio. Il candidato dell’UE al Quirinale, non è un mistero, è Draghi che andrebbe a vestire i panni del garante dell’agenda delle elite sovranazionali, e pochi giorni fa lo stesso Draghi ha dichiarato:” 

L’euro è irreversibile e la Bce farà tutto quel che serve, nell'ambito del suo mandato, per preservarlo. Comunque la Bce non ha alcun potere legislativo per obbligare i Paesi membri a stare nell’euro o a lasciarlo”. Una dichiarazione già in sé contraddittoria, con l’ultima parte dell’affermazione in contrasto con la prima. Se gli stati membri possono lasciare l’euro quando e come vogliono, come può essere l’euro irreversibile? Non lo è chiaramente, perché stiamo parlando di un’unione monetaria prescritta in un trattato internazionale, dal quale si può recedere in qualunque momento con la denuncia o il recesso, secondo gli strumenti previsti dal diritto internazionale con la Convenzione di Vienna. 

Se Renzi verrà sostituito e al suo posto nominato un nuovo premier - possibile la candidatura del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco - con ogni probabilità sarà il nuovo inquilino del Quirinale ad affidargli l’incarico e il meccanismo che hanno pensato le strutture sovranazionali potrebbe delinearsi sotto l’egida di un governo tecnico, l’ennesima tecnocrazia che oramai ha sostituito il Parlamento e le istituzioni democratiche da tempo. La prossima tecnocrazia, potrebbe essere quella che consegnerà le chiavi del Paese alla Troika, il triumvirato che ha raso al suolo la Grecia. 

Draghi ha anche annunciato un ricorso al quantitative easing, quell’operazione di politica monetaria che prevede l’acquisto dei titoli di Stato da parte della BCE per calmierare i tassi di interesse, e mantenerli a livelli sostenibili in un contesto dove gli stati membri emettono un titolo del debito denominato in una valuta di cui non hanno l’emissione diretta. Un’ipotesi che Angela Merkel ha sembrato non gradire, e se effettivamente Draghi dovesse lasciare la poltrona dell’Eurotower, la Germania avrebbe una prateria per nominare il nuovo presidente della BCE più gradito agli interessi e ai desiderata tedeschi, che di certo non farà il QE. Un innalzamento dei tassi di interesse, renderebbe insostenibile per gli stati membri il pagamento del debito, e a quel punto la manovra che potrebbe scongiurare l’eventuale default, in questo caso reale, sarebbe quella di un prelievo forzoso, per attingere alla liquidità bloccata del risparmio di molti italiani, per ripagare i debiti con l’estero. 

Un risparmio che fa gola alla Germania, che ha già parlato di “ risparmio eccessivo degli italiani”. Solamente allora, l’Italia verrà lasciata andare. In questo caso l’uscita dall’euro è contemplata, di certo non nel modo che molti economisti vorrebbero, attraverso una pianificazione ragionata, ma secondo gli obbiettivi di forze esterne che accompagneranno il Paese sull’orlo del baratro per poi scaraventarcelo. Le analogie con un altro anno infausto, il 1992, ci sono e molte, anche se in quel caso uscimmo a caro prezzo dallo Sme dopo numerosi attacchi speculativi della finanza internazionale e aver svenduto i gioielli di famiglia. Vent’anni dopo, la situazione è molto più drammatica, dopo 5 anni consecutivi di recessione e una disoccupazione arrivata a livelli intollerabili. Quali riflessi potrà avere un’uscita  dall’euro in questo modo, su un Paese già profondamente provato, è una previsione difficile da fare, ma sarà meglio tenersi pronti a questa eventualità.

mercoledì 19 novembre 2014

Il suicidio di Abe



Tagli alla spesa e aumento della pressione fiscale: ennesimo fallimento del diktat neo-liberista



Il caso del Giappone del Premier Shinzo Abe, indica ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come le dinamiche neoliberiste applicate nella pratica economica siano ben distanti dalla realtà e producano effetti contrari alle aspettative desiderate. Questo perché, il mondo pensato dai neoliberisti, è qualcosa che esiste solo nel loro immaginario dove i consumatori si comportano secondo uno schema preordinato e fiabesco, e quando si vedono gli effetti reali delle politiche di tagli alla spesa e aumento della pressione fiscale, tutti cadono dal pero e gridano all’imprevedibilità degli eventi. 
 
Una soluzione che assomiglia molto a quello dell’Eurozona, ma partiamo dal Giappone di Abe, per il quale tutti i quotidiani economici hanno gridato al crollo inaspettato quando le premesse che lo annunciavano erano già predisposte. Il Giappone, nel primo trimestre del 2014, realizza una crescita del 1.6% di PIL, quando in aprile il premier Abe, seguendo le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale, su una riduzione del deficit statale, decide di alzare la tassa sui consumi dal 5 al 8%, argomentando la decisione con questa motivazione: ”Ho preso la decisione di alzare la tassa sui consumi, dal 5 al 8%, per mantenere alta la fiducia nel paese e consegnare un sistema previdenziale sostenibile alle prossime generazioni”. 
 
In realtà, il Giappone in quel momento non si trovava in una situazione di sfiducia da parte dei mercati, la sua inflazione era stabile, i titoli del debito erano comprati dagli investitori e i tassi di interessi in controllo. Gli effetti recessivi dell’aumento della pressione fiscale si faranno sentire nel secondo trimestre, con un calo del 7.3%, con il settore privato delle famiglie e degli investitori scoraggiato visto il maggior carico fiscale sui beni di consumo, e con un ulteriore diminuzione del 1,6% nel terzo trimestre senza che il Governo cambiasse rotta.  Abe avrebbe voluto procedere con un secondo aumento delle tasse al consumo su una base del 10% ad ottobre, ma con i risultati ottenuti sulla crescita del PIL si ipotizza un rinvio del rincaro al prossimo anno, probabilmente da confermare in base ai risultati elettorali del prossimo dicembre, poiché Abe ha deciso di sciogliere le Camere e indire le elezioni anticipatamente per ottenere un nuovo mandato con la legittimazione popolare. Una politica economica dettata dalla decisione di abbassare il debito con la compressione della spesa, che non ha dato gli effetti sperati, anche se questo non deve stupire perché le raccomandazioni del Fondo Monetario e dell’Ocse si rivelano puntualmente errate. 
 
L’idea che la riduzione del deficit incoraggi gli investimenti privati, deriva dalla convinzione, smentita dai risultati oggettivi, che il privato sia propenso ad investire perché maggiormente “rassicurato” da una riduzione del deficit statale. Un assioma che non trova corrispondenza nella realtà quotidiana, quando è vero il contrario, quanto più lo Stato aumenti la propria spesa tanto più il privato avrà benefici ad investire, perché quando lo Stato spende e fa deficit, la liquidità emessa finisce nelle tasche dei privati, incoraggiati questa volta per davvero, ad aumentare i consumi e allocare le risorse in investimenti. Il debito aumenterà solo inizialmente, ma gli effetti sul debito nel medio e lungo periodo saranno di riduzione perché con l’aumento del PIL, si avrà anche una maggiore introito fiscale. Uno schema corretto e virtuoso che non è applicato, non tanto per la sua validità intrinseca e provata dalle fattualità economiche, ma perché si insegue un modello ideologico preciso, che mira alla tutela dei pochi soggetti sul mercato che traggono giovamento da una crisi economica e dalla contrazione della spesa. 
 
L’esempio su tutti che dimostra nel caso italiano che lo schema consigliato dagli organismi internazionali è completamente errato, è quello del governo Monti che applicando la politica dei tagli alla spesa e dell’aumento della pressione fiscale ha portato il debito pubblico dal 120% al 130%. Tornando al Giappone ,Kenichiro Yoshida, economista al Mizuho Resarch Institute, ha dichiarato il suo stupore per la riduzione dei consumi: “ E’ molto più debole di quello che ci aspettavamo, la crescita dei consumi è molto debole, questa è la ragione per la quale il governo può decidere di spostare più avanti l’aumento delle tasse”. Ma questo non desta sorpresa, se si riduce lo stimolo fiscale, aumentando la tassa sui consumi è ovvio che si andrà incontro a un calo della domanda interna. 
 
L’indicazione di agire in tal senso, è arrivata ancora una volta dall’Ocse a settembre, dopo già aver registrato il crollo del Pil nel secondo trimestre, raccomandando riforme strutturali ed un ulteriore aumento della pressione fiscale che avrebbe dovuto avere luogo ad ottobre, ignorando che la ripresa non poteva avere luogo con quelle scelte economiche. L’Ocse ha suggerito una manovra prociclica, che non va a colpire le cause della riduzione del PIL e non stimola la domanda aggregata. Le due leve che ha in mano il governo per costruire la crescita , sono la spesa pubblica e le tasse, se aumenterà la prima e diminuirà le seconde , la domanda sarà stimolata rapidamente, aumenteranno i consumi, gli investimenti privati e la disoccupazione calerà inevitabilmente.

La Banca del Giappone, per invertire la tendenza ha utilizzato in modo massiccio lo strumento del quantitative easing, ovvero la monetizzazione del proprio deficit con l’acquisto dal settore privato dei titoli del debito per ridurre il tasso di interesse, compiendo un’operazione di politica monetaria che singolarmente ha dato scarsi risultati. Le operazioni di politica monetaria se non accompagnate da uno stimolo della domanda interna , aumento del deficit e riduzione fiscale, possono fare ben poco per invertire la tendenza. Quello che l’Eurozona non continua a fare, ma ad ignorare persistentemente.

Lo stesso Draghi, ha recentemente annunciato il ricorso al QE, per stimolare la ripresa, mai cominciata, e sostenere l’economia dell’Eurozona, ricordando ai governi degli stati membri di tagliare la spesa. Un’operazione, che già sappiamo essere inutile se non accompagnata da una diversa politica economica. La ripresa, ormai lo hanno capito anche i più digiuni di nozioni economiche, non avrà mai inizio seguendo le strategie dell’austerità che piovono dall’Ocse, dal Fmi e dalla Bce, che continuano a chiedere riforme strutturali, in realtà cartine di tornasole per colpire il salario e i risparmi.

martedì 18 novembre 2014

Le macerie di una guerra firmata e scritta nei Trattati internazionali



"Stiamo assistendo a grotteschi cambi di fronte, ma non sia chi ha distrutto a fare la ricostruzione"


 
Macerie, volti piangenti, grida di disperazione dal cuore delle periferie italiane abbandonate e ricordate solo per tristi passerelle che lasciano spazio al cinismo politico accatta voti.  Lo sfondo è quello di un paese in disfacimento, avviato verso la sconfitta della guerra economica che si è combattuta negli ultimi anni, e di cui molti non sanno di essere entrati. 
 
Una guerra firmata e scritta nei Trattati internazionali, pezzi di carta secondo la vecchia dottrina del diritto internazionale, dai quali una volta si recedeva se il bene della comunità era compromesso, ma che oggi inchiodano il Paese all’autodistruzione volontaria. Una guerra non convenzionale, che è stata dichiarata al Paese da forze sovranazionali, incappucciati della finanza secondo la bella espressione di Federico Caffè, l’economista italiano caposcuola del keynesianesimo italiano, che ha lasciato un grande vuoto, colmato dalla nuova dottrina neoliberista instauratasi nelle università e che sforna laureati in economia, ripetitori delle formule meno Stato, più mercato e con lo spettro del debito pubblico come colpa primigenia degli sprechi e della malversazione italiana, oppure  delle funzioni dello Stato del benessere, sanità, istruzione, scuola e tutti i servizi pubblici somministrati dalle nazioni civili e degne di ricoprire questo nome. 
 
Una narrativa fraudolenta e capziosa, ripetuta da funzionari del sistema finanziario, quella sui dati della spesa pubblica italiana, tra le più basse d’Europa da un trentennio e più. Se si cammina per le strade della città italiane, si farà fatica a distinguere i tratti abbrutiti di quello che era una volta il giardino d’Europa, il luogo dove l’arte, la cultura, erano tutelate e dove era ancora possibile vivere una vita a misura d’uomo, lontano da un modello frenetico e arrivista, che rimbalzava dalla cultura anglosassone, con al centro il mercato e gli interessi commerciali. 
 
Esistono vari modi per attaccare uno stato sovrano. John Perkins, ex collaboratore al servizio delle multinazionali americane, descrive in particolare la guerra economica, che obbliga lo Stato a contrarre debiti onerosi verso l’estero che non potrà ripagare, per poi spolparlo di tutti i servizi pubblici essenziali con privatizzazioni selvagge. Un attacco di questo genere, per poter avere successo ha bisogno della sponda interna, di una classe politica che acconsenta e permetta la realizzazione di un tale piano. La guerra economica di casa nostra, è stata una resa incondizionata, firmata nel 1992, dove gli squilibri dell’unione monetaria e la cessione di sovranità di fatto hanno reso lo Stato una colonia in vendita da poter comprare a prezzo di saldo. 
 
Una resa firmata senza che l’accademia e la politica denunciassero o impedissero per tempo questa disfatta lacerante, dalla quale per ripartire occorrerà uno sforzo complessivo immane, non solamente sotto il profilo degli investimenti economici, ma anche dal lato culturale, perché da molto tempo ormai siamo chiamati ad essere un Paese non solo quando l’Italia scende in campo per i mondiali e gli europei, oppure per sostenere la squadra in Champions League, dove ognuno sa benissimo calcolare i punteggi e la differenza tra goal subiti in casa e fuori. Negli attimi prima della fine annunciata dell’Euro, assistiamo a grotteschi cambi di fronte, improvvise e improvvide conversioni sulla via di Damasco, impersonate da personaggi pronti  a cavalcare il tema del domani, la sovranità e l’antieurismo, così da poter vestire i panni della credibilità, pronti a ricevere gli onori dopo il crollo annunciato. 
 
Il gattopardo, è davvero la filosofia di pensiero ricorrente, e il voltafaccia rimane sempre presente nella tormentata storia del Belpaese. Se c’è stata una guerra e il vincitore ha l’accento straniero, è stato possibile solo grazie a una sponda di italiani che hanno aperto le porte all’invasione, a quei politici come Giuliano Amato o Mario Draghi dalle indubbie competenze giuridiche ed economiche, messe a disposizione di poteri esterni, in cerca di un mero tornaconto personale. 
 
Nel 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, la resa avvenne consapevolmente, l’Iri venne smantellata e regalata a Goldman Sachs su mandato di Mario Draghi. Vent’anni dopo, la guerra è all’apice, le teste di ponte utilizzate per avanzare, si chiamano Renzi e Monti, ma molti ancora non hanno ben compreso le cause ma ne esperimentano gli effetti, con strade dissestate e allagamenti in ogni regione d’Italia. Questi i doni concessi dal patto di stabilità interno, che obbliga gli enti locali ad avanzi di bilancio, e nonostante ci siano i soldi nelle casse dei comuni, questi non possono attingere ai fondi, perché c’è il vincolo esterno. 
 
Quale vincolo è più criminale e iniquo, di quello che mette a repentaglio l’incolumità dei cittadini? Quale stato hanno in mente gli uomini e le donne del governo che applicano l’agenda delle elite sovranazionali, che hanno in disprezzo la vita delle persone comuni? Quando la guerra finirà, molti avranno cambiato parere e casacca sulle azioni compiute in passato, ma qualcuno dovrà pur rispondere di aver firmato dei trattati incostituzionali, della svendita del patrimonio dello Stato, delle vite perse degli imprenditori, della disoccupazione che continua a mordere le famiglie italiane, dei giovani che hanno lasciato il Paese in cerca di fortuna all’estero, della perdita del patrimonio culturale e industriale. 
 
Una ricostruzione del Paese dovrà anche tenere conto di chi colpevolmente ha permesso o di chi ha taciuto, quando vedeva il Paese morire voltando la testa dall’altra parte per puro calcolo personale. Non sia chi ha distrutto a fare la ricostruzione, ma coloro i quali hanno davvero a cuore il bene comune e hanno sofferto una violenza e una disperazione che credevamo di avere dimenticato.

lunedì 17 novembre 2014

UNICE, ERTI: alla scoperta di chi governa realmente nell'Unione Europea



Una giustizia senza sanzioni e un governo non eletto: il modello europeo



I processi decisionali degli stati appartenenti all’Unione Europea sono stati da tempo trasferiti nella mani dell’organismo sovranazionale, vero governo europeo, noto come Commissione Europea. In realtà, poco si sa della Commissione, delle procedure di nomina e dei poteri attribuiti ad essa.

La Commissione Europea, è strutturata come un governo nazionale, con 28 direzioni sul modello dei dicasteri degli stati membri, ad ognuno dei quali compete un settore di competenza; esteri, economia, ambiente, immigrazione, etc. I commissari europei non sono eletti dai cittadini degli stati membri, e l’ultima campagna elettorale andata in scena a Bruxelles per convincere i cittadini europei a preferire Juncker piuttosto che Schulz aveva un sapore grottesco, considerato che il potere di nomina del Presidente della Commissione avviene dentro il Consiglio Europeo, organo di rappresentanza degli stati membri. 
 
L’assemblea rappresentativa del Parlamento Europeo, è eletta dai cittadini europei, ma essa non dispone di un potere di sfiducia cogente nei confronti della Commissione, che teoricamente è il Governo europeo. La struttura dell’Ue di fatto ha partorito un parlamento senza poteri di sorta, dalle proporzioni elefantiache , con una doppia sede, e privandolo di un potere fondamentale presente nelle repubbliche parlamentari, quello di sfiducia verso il suo governo  e non introducendo l’obbligo dell’esecutivo europeo, di rispondere del proprio operato di fronte all’assemblea parlamentare. Una struttura, quella europea, priva delle basi delle democrazie costituzionali. Se la Commissione non risponde al Parlamento, abbiamo un caso di Governo con poteri legislativi permeanti per la vita dei cittadini europei, che sforna direttive e regolamenti capaci di superare gerarchicamente  il diritto nazionale e disapplicare il diritto degli stati membri.
 
Quali sono le considerazione e i fattori che influenzano una direttiva o un regolamento europeo? Bruxelles è il luogo privilegiato del lobbismo internazionale insieme a Washington. La differenza tra i due tipi di lobbismo giace nella “ trasparenza” di quello statunitense, dove esiste un registro pubblico dei lobbisti per i quali è obbligatoria l’iscrizione, mentre per quello europeo, c’è un registro noto come il “ Registro della Trasparenza” (sic!) ma l’iscrizione è su base volontaria e il lobbista che opera a Bruxelles può decidere di rimanere anonimo. Sostanzialmente, il lobbismo USA è meno “ipocrita” di quello europeo, dove nel modello capitalistico anglosassone , il liberismo e la pressione esercitata dai gruppi finanziari e industriali non va celata, ma resa pubblica per trasmettere un’immagine di legalità che non contribuisce certo a tutelare e rendere effettivi gli interessi dei cittadini comuni. 
 
Chi dispone del capitale in abbondanza, ha più probabilità di convincere e influenzare le istituzioni nella direzione desiderata.  In questo "liberismo concorrenziale" si fissano regole in contraddizione con le reali capacità economiche e finanziarie dei membri della sua società. I gruppi, privi di potenza finanziaria saranno sempre esclusi o inascoltati dai vertici. Il lobbismo europeo non obbliga a far sapere chi fa parte dei conglomerati di potere che hanno il potere di influenzare il 75% delle decisioni prese dalla Commissione Europea, alla quale è stato dato un potere legislativo superiore alle fonti del diritto nazionale, che di fatto esprime gli interessi di altri gruppi di pressione. 
 
Gli organismi di pressione che godono di maggiore considerazione nei corridoi di Bruxelles, dove si aggirano ben 30000 persone al servizio delle lobby, sono l’UNICE, il gruppo che rappresenta le confederazioni industriali dei paesi dell’Unione, e l’European Round Table of Industrialists (ERTI) formata da 50 presidenti e amministratori delle più importanti aziende europee. Un coacervo di interessi forti, dove le associazioni dei consumatori, dei lavoratori, e degli ambientalisti vengono sovrastati dalla potenza dei gruppi forti, e le direttive della Commissione sono di conseguenza l’espressione degli interessi che mirano alla globalizzazione economica, ossequiosi all’obbiettivo della deflazione salariale  e della tutela delle megacorporation.  
 
Gli interessi dei lavoratori europei  sono interessi deboli di fronte a quelli dei produttori, basti pensare tra la numerosa casistica, ai produttori di scarpe che da tempo hanno spostato la loro produzione al di fuori dell’Europa, domandando e ottenendo parametri tecnici e di sicurezza inferiori agli standard europei. La teoria del commercio senza restrizioni e controlli, è favorita dalla Commissione che ha tutto l’interesse a far affluire sui mercati nazionali prodotti a basso costo importati dall’Est asiatico, in modo da poter ottenere la riduzione delle tutele del lavoro e abbassare il costo del lavoro in Europa.  Quando si sente la reprimenda del Commissario europeo di turno all’Italia chiedendole più tagli allo stato sociale e meno tutele sindacali, va ricordato che il Commissario de facto ha solo la veste di un portavoce, applica l’agenda di un potere finanziario e industriale che nulla ha in comune con gli interessi del Paese. 
 
Allo stesso Commissario è garantita “l'immunità di giurisdizione per gli atti da loro compiuti in veste ufficiale, comprese le loro parole e i loro scritti”( art.11 Protocollo 7 TFUE) . Di fatto, la Commissione che lancia l’allarme corruzione in Italia, forse dovrebbe guardare nei meandri dei suoi corridoi, poiché se un tale gruppo di lobby è presente a Bruxelles, ed esercita un’influenza determinante sulla  direttiva  da approvare più confacente agli interessi delle multinazionali,  ci si domanda chi ha il potere di controllare che la Commissione stia agendo effettivamente negli interessi dei cittadini europei? 
 
Chi può verificare e stabilire se un Commissario non abbia preso sovvenzioni per fare approvare un provvedimento a vantaggio di un gruppo di potere contro gli interessi collettivi? Esiste un precedente in cui la Commissione Europea, si dimise in blocco a seguito del sospetto di corruzione e fondi neri,  ed è quello della Commissione Santer nel 1999 quando due dei commissari membri, Edith Cresson e Manuel Marin, finirono nell’occhio del ciclone per malversazioni. In particolare il Commissario francese venne poi sottoposto al giudizio della Corte di Giustizia della Comunità Europee, che ha emesso una condanna nei confronti della Cresson, senza però sanzionare effettivamente la sua condotta, lasciando intatto il suo diritto alla pensione da commissario.  Una giustizia  senza nessuna sanzione e un governo non eletto.  Un modello in stile UE.
 
 

venerdì 14 novembre 2014

La Francia indica la via: ecco perché l’Italia può uscire dal Trattato di Maastricht




Il diritto internazionale con la Convenzione di Vienna è molto chiaro al riguardo...


Pubblicato il 2/10/2014


Nell’Europa degli interessi e dell’austerità sociale, se avrete la sfortuna di essere italiani, ciprioti o greci conterete meno del due di coppe e dovrete allinearvi senza discutere a tutti gli ordini e direttive che calano da Bruxelles con buona pace dell’integrazione forzata europea che doveva valorizzare l’importanza e il peso dei singoli stati. Se invece siete francesi o addirittura tedeschi, potrete ancora dire la vostra e quando lo riterrete più opportuno e necessario per i vostri interessi nazionali potrete violare i Trattati, senza avere timore di conseguenze particolari, visto il ruolo e l’importanza che ricoprite nel processo decisionale e non sarete disposti molto probabilmente a suicidarvi in nome dell’austerity. 
 
La Francia si ricorda di essere la Francia e ieri per bocca del suo Ministro delle Finanze ha annunciato che non rispetterà il famigerato parametro del 3% di deficit sul PIL, prescritto nel Trattato di Maastricht, ma lo supererà di più di un punto percentuale. Si tratta di una violazione dichiarata ed esplicita di un trattato internazionale, e non è la prima volta che accade, basti ricordare che la Germania violò per ben 3 volte consecutive questa prescrizione dal 2003 al 2005, anche se qui la memoria teutonica avrebbe bisogno di essere rinfrescata perché all’epoca non predicava affatto né rigore né austerità, per passare alle violazioni della Francia con il 7% di deficit nel 2009, fino a quelle della Spagna nel 2010 con il 9,27%. 
 
Dal punto di vista del diritto internazionale l’Italia ratificando il Trattato di Maastricht ha aderito ad un accordo multilaterale. La vita di qualsiasi trattato o accordo internazionale in passato era legata alla volontà degli stati che lo avevano firmato, ovvero l’esistenza e la durata degli accordi venivano meno qualora uno degli Stati firmatari prendesse la decisione di recedere unilateralmente o perché riteneva che l’altra parte non stesse rispettando il contenuto dei trattati, oppure perché si era verificato un cambiamento delle condizioni iniziali che erano irrinunciabili per la validità del trattato. 
 
La regola da seguire secondo Bismarck, Cancelliere tedesco del XIX secolo forse più lungimirante dell’attuale Cancelliera Merkel, sugli accordi era “l’osservanza dei trattati tra le grandi potenze, in effetti, è relativa, come si nota quando tale osservanza è posta a confronto con la lotta per la sopravvivenza. Nessuna grande potenza è disposta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fedeltà ad un trattato, se obbligata a scegliere tra le due cose.” L’Italia a quanto pare continua ad andare contro i suoi interessi di nazione e di grande potenza , “sacrificando la propria esistenza” per adempiere alle condizioni un trattato che le altre parti firmatarie non rispettano e violano ripetutamente, e segue pedissequamente le istruzioni della Commissione Europea senza opporre resistenza, nonostante i conti dell’Italia siano tra i più ordinati rispetto agli altri stati e sia stato perseguito insistentemente l’avanzo primario, con la compressione del livello della spesa pubblica. 
 
Quali alternative ha a disposizione l’Italia dal punto di vista giuridico per uscire da una situazione di impasse che sta gravemente compromettendo il funzionamento della sua economia con le conseguenze che conosciamo? La Convenzione di Vienna del 1969, a cui l’Italia ha aderito, ha posto fine all’arbitrarietà decisionale sul rispetto dei trattati e sulle condizioni di recesso o denuncia degli stessi. Sull’inadempimento del trattato, l’art.60 della Convenzione stabilisce che la violazione sostanziale da parte di uno degli stati firmatari può dare luogo alle cause di estinzione o sospensione degli accordi, lasciando la discrezionalità sulla scelta  dell’estinzione o della sospensione allo Stato che invoca l’inadempimento. Nel caso del Trattato di Maastricht, ci troviamo di fronte a violazioni sostanziali degli accordi ripetute più volte dagli Stati membri (Germania, Francia, Irlanda, Spagna) e lo scopo e l’oggetto del Trattato sono stati traditi, poiché il 3% di deficit sul PIL è stato pensato per contenere i livelli di deficit degli Stati membri e quindi appare evidente che superando sistematicamente questa soglia lo scopo e l’oggetto del Trattato vengono meno. 
 
Noi aggiungiamo che il 3% è una soglia completamente arbitraria dal punto di vista scientifico ed economico, non potendo esistere in economia un livello ottimale prestabilito di deficit, il quale è uno strumento utilizzato dallo Stato per aumentare o ridurre la spesa pubblica a seconda delle particolari contingenze economiche, ma è stato inserito nel Trattato di Maastricht e pertanto se gli altri stati membri decidono di violarlo unilateralmente, contraddicendo il detto Pacta Sunt Servanda, l’Italia ha tutto il diritto di utilizzare gli strumenti della Convenzione invocando l’inadempienza delle altri parti e lasciarsi alle spalle un periodo di sfacelo economico e sociale che non conosceva dal dopoguerra. 
 
La Francia ha semplicemente fatto i suoi interessi, poiché la sua economia è in grave sofferenza e la produzione industriale ha fatto registrare un ennesimo calo, da qui la decisione di superare il 3% non solo per motivi economici ma anche politici, con un Presidente Hollande già fortemente indebolito e una maggioranza parlamentare non più solida, questo annuncio forse vuole calmare la pressione su Hollande. Se dunque gli strumenti esistono e sono a disposizione del Governo italiano, perché si continuano a fare annunci di voce grossa in Europa quando basterebbe minacciare la sospensione o l’estinzione degli accordi?

giovedì 13 novembre 2014

Quando uno Stato è legittimato a non ripagare il proprio debito estero

 

Tra debito e garanzia dei diritti fondamentali ai propri cittadini, il diritto internazionale è molto chiaro su chi deve prevalere



 
Che l’austerity fosse profondamente sbagliata sotto il profilo economico e desse risultati ancora peggiori nell’ammontare del debito pubblico è stato più volte ricordato e gli effetti nocivi li vediamo sotto i nostri occhi. 
 
L’aspetto che va più messo in luce è quello di uno stato sovrano funzionante con specifici limiti alle sue obbligazioni, nella fattispecie debiti contratti con altri stati e/o compagnie private straniere. Tradotto: può uno Stato per ottemperare al pagamento di un debito negare sé stesso e rinunciare a tutti i servizi essenziali che ad esso sono connaturati e irrinunciabili, come la sanità, la sicurezza pubblica, la tutela dell’ambiente e le politiche occupazionali instaurando uno stato di anarchia
 
A quanto pare no, e non è una velina sovranista a propugnare un tale concetto eversivo agli occhi di molti osservatori e dei valletti della finanza internazionale, ma la dottrina internazionale rappresentata in questo caso dalla ILC (International Law Commission) che nel relativo annuario del 1980 ci fornisce lumi su quel caso peculiare in cui uno Stato può invocare quello che viene definito uno ”stato di necessità” , ovvero quella particolare situazione in cui il debito contratto dallo Stato X nei confronti dello Stato Y possa non essere adempiuto se si dovessero verificare condizioni di impossibilità al pagamento dell’obbligazione e per le quali lo Stato X debitore se dovesse eseguire il pagamento, sarebbe costretto a privare i cittadini dei loro servizi fondamentali come l’istruzione, la sanità, la sicurezza pubblica, etc. 
 
Il caso di scuola è quello del contenzioso tra Grecia e Belgio avvenuto tra gli anni’20 e’30. Il governo greco negli anni’20 appaltò la costruzione di alcune linee ferroviarie con relative forniture dei materiali alla Societè Commerciale de Belgique, che prestò al governo greco la somma necessaria per sostenere i lavori . Il governo ellenico emise titoli del debito pubblico a favore della compagnia belga per garantire il pagamento dell’obbligazione. 
 
Successivamente la Grecia negli anni’30, in seguito alla crisi economica scaturita dal crac finanziario del 1929 fu costretta ad abbandonare il gold standard e a dichiarare il default, dichiarando l’impossibilità a pagare il proprio debito e adducendo come motivazione quello “ stato di necessità” di cui abbiamo fatto cenno sopra, ma la Societè Commerciale de Belgique rifiutò questa spiegazione e con il patrocinio del governo belga fece ricorso presso la Corte Internazionale di Giustizia. La Corte accolse le motivazioni fornite dalla Grecia, dichiarando che il governo ellenico aveva fatto quello che qualsiasi governo responsabile avrebbe fatto al suo posto. 
 
Sono di aiuto le parole del rappresentante greco Youpis presso la Corte Internazionale per capire meglio come uno Stato dovrebbe comportarsi in situazioni del genere: ”possono occorrere circostanze che vanno al di là del controllo umano e che rendono impossibili per i governi ottemperare ai doveri verso i creditori e verso il popolo; le risorse della nazione sono insufficienti per adempiere ad entrambi i doveri. Si rivela impossibile pagare il debito e nello stesso tempo garantire ai cittadini un’amministrazione efficiente e fornire le condizioni essenziali per uno  sviluppo economico, sociale e morale della nazione”. 
 
Quindi a questo punto la domanda da porsi è: quale dei due doveri soccombe? La Corte in proposito non ha dubbi: “ A nessuno Stato è richiesto di adempiere, parzialmente o pienamente, le sue obbligazioni pecuniarie se queste mettono in pericolo il funzionamento dei servizi pubblici e ottengono l’effetto di disarticolare la pubblica amministrazione della nazione. Nel caso in cui il pagamento metta in pericolo la vita economica o comprometta il funzionamento dell’amministrazione, il Governo è autorizzato a sospendere o ridurre il pagamento del debito”. La conclusione da trarsi è che lo Stato non può smettere di fare lo Stato per pagare un debito e le richieste di pagamento lamentate dagli investitori internazionali non possono in nessun caso andare a ledere la sfera dei diritti fondamentali presenti in Costituzione e garantiti dal diritto internazionale. 
 
L’austerità sta sopprimendo proprio quella parte della Carta costituzionale che contiene i diritti fondamentali e che non possono essere compressi né snaturati da nessuna norma, poiché la Costituzione nella gerarchia delle fonti è ancora la fonte primaria del nostro ordinamento, e perciò dobbiamo necessariamente osservare che i trattati europei imponendo politiche economiche e livelli di deficit insufficienti a raggiungere gli obbiettivi dello Stato sociale quali la piena occupazione, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione, diritti fondamentali per un’affermazione e uno sviluppo dell’uomo nella società, siano illegittimi e inesistenti da un punto di vista giuridico. 
 
Questo conflitto è insanabile e viene da chiedersi perché mai nessun partito o gruppo parlamentare abbia mai fatto proprie queste istanze e chiesto il recesso o la denuncia dei trattati europei che allo stato attuale delle cose stanno compromettendo la somministrazione dei servizi pubblici essenziali e il Governo italiano sarebbe legittimato a chiederne il recesso per cause di forza maggiore. 
 
Le politiche europee non stanno solo danneggiando le economie degli stati membri ma annullano il ruolo essenziale dello Stato e la sua natura stessa di garante dell’ordine e del benessere sociale per instaurare un modello anarco-liberista fondato sulla legge della giungla, dove la vita stessa dei cittadini è svuotata e priva di valore e quella degli interessi speculativi invece è salvaguardata. Il precedente tra Grecia e Belgio ci mostra come i mercati non possono e non debbono disporre della vita degli stati sovrani, per passare dalla pretesa legittimità di sentenze emesse in paesi stranieri imponendone l’applicazione negli stati sovrani come nel recente caso tra i fondi avvoltoi USA e il Governo argentino, che si è legittimamente rifiutato di applicare una sentenza straniera che cambiava completamente la natura dell’obbligazione.

La Presidenta Kirchner ha dimostrato fermezza e rigore dando il benservito ad una finanza che da troppo tempo ormai continua a succhiare linfa dagli stati e per questo si è guadagnata la reprimenda del Ministro tedesco Schauble ed una pagina diffamatoria del Financial Times. Ecco, questa per noi è veramente una medaglia da appuntarsi al petto con orgoglio.