martedì 18 novembre 2014

Le macerie di una guerra firmata e scritta nei Trattati internazionali



"Stiamo assistendo a grotteschi cambi di fronte, ma non sia chi ha distrutto a fare la ricostruzione"


 
Macerie, volti piangenti, grida di disperazione dal cuore delle periferie italiane abbandonate e ricordate solo per tristi passerelle che lasciano spazio al cinismo politico accatta voti.  Lo sfondo è quello di un paese in disfacimento, avviato verso la sconfitta della guerra economica che si è combattuta negli ultimi anni, e di cui molti non sanno di essere entrati. 
 
Una guerra firmata e scritta nei Trattati internazionali, pezzi di carta secondo la vecchia dottrina del diritto internazionale, dai quali una volta si recedeva se il bene della comunità era compromesso, ma che oggi inchiodano il Paese all’autodistruzione volontaria. Una guerra non convenzionale, che è stata dichiarata al Paese da forze sovranazionali, incappucciati della finanza secondo la bella espressione di Federico Caffè, l’economista italiano caposcuola del keynesianesimo italiano, che ha lasciato un grande vuoto, colmato dalla nuova dottrina neoliberista instauratasi nelle università e che sforna laureati in economia, ripetitori delle formule meno Stato, più mercato e con lo spettro del debito pubblico come colpa primigenia degli sprechi e della malversazione italiana, oppure  delle funzioni dello Stato del benessere, sanità, istruzione, scuola e tutti i servizi pubblici somministrati dalle nazioni civili e degne di ricoprire questo nome. 
 
Una narrativa fraudolenta e capziosa, ripetuta da funzionari del sistema finanziario, quella sui dati della spesa pubblica italiana, tra le più basse d’Europa da un trentennio e più. Se si cammina per le strade della città italiane, si farà fatica a distinguere i tratti abbrutiti di quello che era una volta il giardino d’Europa, il luogo dove l’arte, la cultura, erano tutelate e dove era ancora possibile vivere una vita a misura d’uomo, lontano da un modello frenetico e arrivista, che rimbalzava dalla cultura anglosassone, con al centro il mercato e gli interessi commerciali. 
 
Esistono vari modi per attaccare uno stato sovrano. John Perkins, ex collaboratore al servizio delle multinazionali americane, descrive in particolare la guerra economica, che obbliga lo Stato a contrarre debiti onerosi verso l’estero che non potrà ripagare, per poi spolparlo di tutti i servizi pubblici essenziali con privatizzazioni selvagge. Un attacco di questo genere, per poter avere successo ha bisogno della sponda interna, di una classe politica che acconsenta e permetta la realizzazione di un tale piano. La guerra economica di casa nostra, è stata una resa incondizionata, firmata nel 1992, dove gli squilibri dell’unione monetaria e la cessione di sovranità di fatto hanno reso lo Stato una colonia in vendita da poter comprare a prezzo di saldo. 
 
Una resa firmata senza che l’accademia e la politica denunciassero o impedissero per tempo questa disfatta lacerante, dalla quale per ripartire occorrerà uno sforzo complessivo immane, non solamente sotto il profilo degli investimenti economici, ma anche dal lato culturale, perché da molto tempo ormai siamo chiamati ad essere un Paese non solo quando l’Italia scende in campo per i mondiali e gli europei, oppure per sostenere la squadra in Champions League, dove ognuno sa benissimo calcolare i punteggi e la differenza tra goal subiti in casa e fuori. Negli attimi prima della fine annunciata dell’Euro, assistiamo a grotteschi cambi di fronte, improvvise e improvvide conversioni sulla via di Damasco, impersonate da personaggi pronti  a cavalcare il tema del domani, la sovranità e l’antieurismo, così da poter vestire i panni della credibilità, pronti a ricevere gli onori dopo il crollo annunciato. 
 
Il gattopardo, è davvero la filosofia di pensiero ricorrente, e il voltafaccia rimane sempre presente nella tormentata storia del Belpaese. Se c’è stata una guerra e il vincitore ha l’accento straniero, è stato possibile solo grazie a una sponda di italiani che hanno aperto le porte all’invasione, a quei politici come Giuliano Amato o Mario Draghi dalle indubbie competenze giuridiche ed economiche, messe a disposizione di poteri esterni, in cerca di un mero tornaconto personale. 
 
Nel 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, la resa avvenne consapevolmente, l’Iri venne smantellata e regalata a Goldman Sachs su mandato di Mario Draghi. Vent’anni dopo, la guerra è all’apice, le teste di ponte utilizzate per avanzare, si chiamano Renzi e Monti, ma molti ancora non hanno ben compreso le cause ma ne esperimentano gli effetti, con strade dissestate e allagamenti in ogni regione d’Italia. Questi i doni concessi dal patto di stabilità interno, che obbliga gli enti locali ad avanzi di bilancio, e nonostante ci siano i soldi nelle casse dei comuni, questi non possono attingere ai fondi, perché c’è il vincolo esterno. 
 
Quale vincolo è più criminale e iniquo, di quello che mette a repentaglio l’incolumità dei cittadini? Quale stato hanno in mente gli uomini e le donne del governo che applicano l’agenda delle elite sovranazionali, che hanno in disprezzo la vita delle persone comuni? Quando la guerra finirà, molti avranno cambiato parere e casacca sulle azioni compiute in passato, ma qualcuno dovrà pur rispondere di aver firmato dei trattati incostituzionali, della svendita del patrimonio dello Stato, delle vite perse degli imprenditori, della disoccupazione che continua a mordere le famiglie italiane, dei giovani che hanno lasciato il Paese in cerca di fortuna all’estero, della perdita del patrimonio culturale e industriale. 
 
Una ricostruzione del Paese dovrà anche tenere conto di chi colpevolmente ha permesso o di chi ha taciuto, quando vedeva il Paese morire voltando la testa dall’altra parte per puro calcolo personale. Non sia chi ha distrutto a fare la ricostruzione, ma coloro i quali hanno davvero a cuore il bene comune e hanno sofferto una violenza e una disperazione che credevamo di avere dimenticato.

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