Il suicidio di Abe
Tagli alla spesa e aumento della pressione fiscale: ennesimo fallimento del diktat neo-liberista
Il caso del Giappone del Premier Shinzo Abe, indica
ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come le dinamiche neoliberiste
applicate nella pratica economica siano ben distanti dalla realtà e
producano effetti contrari alle aspettative desiderate. Questo perché,
il mondo pensato dai neoliberisti, è qualcosa che esiste solo nel loro
immaginario dove i consumatori si comportano secondo uno schema
preordinato e fiabesco, e quando si vedono gli effetti reali delle
politiche di tagli alla spesa e aumento della pressione fiscale, tutti
cadono dal pero e gridano all’imprevedibilità degli eventi.
Una soluzione che assomiglia molto a quello dell’Eurozona,
ma partiamo dal Giappone di Abe, per il quale tutti i quotidiani
economici hanno gridato al crollo inaspettato quando le premesse che lo
annunciavano erano già predisposte. Il Giappone, nel primo trimestre del
2014, realizza una crescita del 1.6% di PIL, quando in aprile il
premier Abe, seguendo le raccomandazioni del Fondo Monetario
Internazionale, su una riduzione del deficit statale, decide di alzare
la tassa sui consumi dal 5 al 8%, argomentando la decisione con questa
motivazione: ”Ho preso la decisione di alzare la tassa sui consumi, dal 5
al 8%, per mantenere alta la fiducia nel paese e consegnare un sistema
previdenziale sostenibile alle prossime generazioni”.
In realtà, il Giappone in quel momento non si trovava in una situazione di sfiducia da parte dei mercati,
la sua inflazione era stabile, i titoli del debito erano comprati dagli
investitori e i tassi di interessi in controllo. Gli effetti recessivi
dell’aumento della pressione fiscale si faranno sentire nel secondo
trimestre, con un calo del 7.3%, con il settore privato delle famiglie e
degli investitori scoraggiato visto il maggior carico fiscale sui beni
di consumo, e con un ulteriore diminuzione del 1,6% nel terzo trimestre
senza che il Governo cambiasse rotta. Abe avrebbe voluto procedere con
un secondo aumento delle tasse al consumo su una base del 10% ad
ottobre, ma con i risultati ottenuti sulla crescita del PIL si ipotizza
un rinvio del rincaro al prossimo anno, probabilmente da confermare in
base ai risultati elettorali del prossimo dicembre, poiché Abe ha deciso
di sciogliere le Camere e indire le elezioni anticipatamente per
ottenere un nuovo mandato con la legittimazione popolare. Una politica economica dettata dalla decisione di abbassare il debito
con la compressione della spesa, che non ha dato gli effetti sperati,
anche se questo non deve stupire perché le raccomandazioni del Fondo
Monetario e dell’Ocse si rivelano puntualmente errate.
L’idea che la riduzione del deficit incoraggi gli investimenti privati,
deriva dalla convinzione, smentita dai risultati oggettivi, che il
privato sia propenso ad investire perché maggiormente “rassicurato” da
una riduzione del deficit statale. Un assioma che non trova
corrispondenza nella realtà quotidiana, quando è vero il contrario,
quanto più lo Stato aumenti la propria spesa tanto più il privato avrà
benefici ad investire, perché quando lo Stato spende e fa deficit, la
liquidità emessa finisce nelle tasche dei privati, incoraggiati questa
volta per davvero, ad aumentare i consumi e allocare le risorse in
investimenti. Il debito aumenterà solo inizialmente, ma gli effetti sul
debito nel medio e lungo periodo saranno di riduzione perché con
l’aumento del PIL, si avrà anche una maggiore introito fiscale. Uno
schema corretto e virtuoso che non è applicato, non tanto per la sua
validità intrinseca e provata dalle fattualità economiche, ma perché si
insegue un modello ideologico preciso, che mira alla tutela dei pochi
soggetti sul mercato che traggono giovamento da una crisi economica e
dalla contrazione della spesa.
L’esempio su tutti che dimostra nel caso italiano che lo schema
consigliato dagli organismi internazionali è completamente errato, è
quello del governo Monti che applicando la politica dei tagli
alla spesa e dell’aumento della pressione fiscale ha portato il debito
pubblico dal 120% al 130%. Tornando al Giappone ,Kenichiro Yoshida,
economista al Mizuho Resarch Institute, ha dichiarato il suo stupore per
la riduzione dei consumi: “ E’ molto più debole di quello che ci
aspettavamo, la crescita dei consumi è molto debole, questa è la ragione
per la quale il governo può decidere di spostare più avanti l’aumento
delle tasse”. Ma questo non desta sorpresa, se si riduce lo stimolo
fiscale, aumentando la tassa sui consumi è ovvio che si andrà incontro a
un calo della domanda interna.
L’indicazione di agire in tal senso, è arrivata ancora una volta dall’Ocse a
settembre, dopo già aver registrato il crollo del Pil nel secondo
trimestre, raccomandando riforme strutturali ed un ulteriore aumento
della pressione fiscale che avrebbe dovuto avere luogo ad ottobre,
ignorando che la ripresa non poteva avere luogo con quelle scelte
economiche. L’Ocse ha suggerito una manovra prociclica, che non va a
colpire le cause della riduzione del PIL e non stimola la domanda
aggregata. Le due leve che ha in mano il governo per costruire la
crescita , sono la spesa pubblica e le tasse, se aumenterà la prima e
diminuirà le seconde , la domanda sarà stimolata rapidamente,
aumenteranno i consumi, gli investimenti privati e la disoccupazione
calerà inevitabilmente.
La Banca del Giappone, per invertire la tendenza ha utilizzato in modo massiccio lo strumento del quantitative easing, ovvero la monetizzazione del proprio deficit con l’acquisto dal settore privato dei titoli del debito per ridurre il tasso di interesse, compiendo un’operazione di politica monetaria che singolarmente ha dato scarsi risultati. Le operazioni di politica monetaria se non accompagnate da uno stimolo della domanda interna , aumento del deficit e riduzione fiscale, possono fare ben poco per invertire la tendenza. Quello che l’Eurozona non continua a fare, ma ad ignorare persistentemente.
Lo stesso Draghi, ha recentemente annunciato il ricorso al QE, per stimolare la ripresa, mai cominciata, e sostenere l’economia dell’Eurozona, ricordando ai governi degli stati membri di tagliare la spesa. Un’operazione, che già sappiamo essere inutile se non accompagnata da una diversa politica economica. La ripresa, ormai lo hanno capito anche i più digiuni di nozioni economiche, non avrà mai inizio seguendo le strategie dell’austerità che piovono dall’Ocse, dal Fmi e dalla Bce, che continuano a chiedere riforme strutturali, in realtà cartine di tornasole per colpire il salario e i risparmi.
La Banca del Giappone, per invertire la tendenza ha utilizzato in modo massiccio lo strumento del quantitative easing, ovvero la monetizzazione del proprio deficit con l’acquisto dal settore privato dei titoli del debito per ridurre il tasso di interesse, compiendo un’operazione di politica monetaria che singolarmente ha dato scarsi risultati. Le operazioni di politica monetaria se non accompagnate da uno stimolo della domanda interna , aumento del deficit e riduzione fiscale, possono fare ben poco per invertire la tendenza. Quello che l’Eurozona non continua a fare, ma ad ignorare persistentemente.
Lo stesso Draghi, ha recentemente annunciato il ricorso al QE, per stimolare la ripresa, mai cominciata, e sostenere l’economia dell’Eurozona, ricordando ai governi degli stati membri di tagliare la spesa. Un’operazione, che già sappiamo essere inutile se non accompagnata da una diversa politica economica. La ripresa, ormai lo hanno capito anche i più digiuni di nozioni economiche, non avrà mai inizio seguendo le strategie dell’austerità che piovono dall’Ocse, dal Fmi e dalla Bce, che continuano a chiedere riforme strutturali, in realtà cartine di tornasole per colpire il salario e i risparmi.
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