giovedì 20 novembre 2014

Che l'uscita dall'euro non avvenga con una gestione tecnocratica




L'obiettivo è quello del commissariamento dell'Italia nella fase di transizione alla lira...




Da diverse settimane si susseguono gli avvertimenti della stampa estera economica e degli addetti ai lavori, che annunciano una fine imminente dell’eurozona. Se proviamo a leggere tra le righe di questi messaggi, potremmo dire che qualcuno dai piani alti abbia già deciso per noi come e quando dovremo uscire da questo supplizio, con il rischio concreto di trovarci in mano una vittoria di Pirro. 

L’ex-ministro delle Finanze Vincenzo Visco ha dichiarato:” il rischio di disintegrazione dell’euro riguarda tutti i Paesi del Sud e potenzialmente anche la Francia. E se si disintegra l’euro, fanno default tutti.” La prima parte dell’analisi è senz’altro corretta, la seconda meno perché in caso di uscita dall’unione monetaria, non è affatto detto che lo Stato che assuma tale decisione debba dichiarare default sul proprio debito sovrano, avendo la facoltà di riconvertire il debito nella valuta nazionale, nel caso italiano la nuova lira, con l’applicazione della cara vecchia lex monetae. Chi accetta la riconversione sarà pagato in una valuta diversa da quella originaria, chi non accetta rimarrà all’asciutto. L’ipotesi che stiamo discutendo prevede che nell’eventuale uscita del domani ci sia un governo che abbia una chiara strategia, una precisa volontà di uscita ragionata e ordinata. 

Nella contemporaneità della politica italiana, mera esecutrice di ordini sovranazionali, è lecito pensare che le cose non vadano nella direzione auspicata e auspicabile, ma si pensi a un’uscita sgangherata, disordinata dove in pochi capiranno la catena di eventi che si susseguiranno rapidamente, rimanendone inevitabilmente travolti.  Sappiamo che i poteri sovranazionali mirano a un commissariamento del nostro Paese, e attendono pazienti che gli si presenti il casus belli, per inviare le lettere di diffida già redatte e pronte nei cassetti delle scrivanie di Bruxelles. 

Un’occasione potrebbe presentarsi con la legge di stabilità, per la quale Kaitanen, commissario UE per gli affari economici e monetari, ha fatto sapere che ci sono dei profili di irregolarità per ciò che attiene al disavanzo strutturale, da ridurre secondo Bruxelles, e questo non rappresenta una novità visto che si chiedono tagli alla spesa in misura sempre maggiori. Gli stessi poteri generalmente si servono di manovalanza che deve indossare i panni del macellaio sociale, prima Monti, Letta e ora Renzi, e finora quando questi personaggi hanno portato a termine il loro lavoro, o non lo hanno fatto nella misura richiesta, sono stati gentilmente accompagnati alla porta e scaricati, perché oramai divenuti inservibili. 

L’ultimo in ordine cronologico, Renzi, sta portando avanti l’agenda assegnatagli, anche se l’art.18 non è stato ancora abrogato, resta da realizzare l’agognata svalutazione salariare da tempo domandata dai gruppi industriali delocalizzatori, e forse dopo l’approvazione o meno del Jobs Act potrebbe verificarsi già un primo avvicendamento nelle stanze dei bottoni, con un Napolitano pronto alle dimissioni a dicembre o gennaio. Il candidato dell’UE al Quirinale, non è un mistero, è Draghi che andrebbe a vestire i panni del garante dell’agenda delle elite sovranazionali, e pochi giorni fa lo stesso Draghi ha dichiarato:” 

L’euro è irreversibile e la Bce farà tutto quel che serve, nell'ambito del suo mandato, per preservarlo. Comunque la Bce non ha alcun potere legislativo per obbligare i Paesi membri a stare nell’euro o a lasciarlo”. Una dichiarazione già in sé contraddittoria, con l’ultima parte dell’affermazione in contrasto con la prima. Se gli stati membri possono lasciare l’euro quando e come vogliono, come può essere l’euro irreversibile? Non lo è chiaramente, perché stiamo parlando di un’unione monetaria prescritta in un trattato internazionale, dal quale si può recedere in qualunque momento con la denuncia o il recesso, secondo gli strumenti previsti dal diritto internazionale con la Convenzione di Vienna. 

Se Renzi verrà sostituito e al suo posto nominato un nuovo premier - possibile la candidatura del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco - con ogni probabilità sarà il nuovo inquilino del Quirinale ad affidargli l’incarico e il meccanismo che hanno pensato le strutture sovranazionali potrebbe delinearsi sotto l’egida di un governo tecnico, l’ennesima tecnocrazia che oramai ha sostituito il Parlamento e le istituzioni democratiche da tempo. La prossima tecnocrazia, potrebbe essere quella che consegnerà le chiavi del Paese alla Troika, il triumvirato che ha raso al suolo la Grecia. 

Draghi ha anche annunciato un ricorso al quantitative easing, quell’operazione di politica monetaria che prevede l’acquisto dei titoli di Stato da parte della BCE per calmierare i tassi di interesse, e mantenerli a livelli sostenibili in un contesto dove gli stati membri emettono un titolo del debito denominato in una valuta di cui non hanno l’emissione diretta. Un’ipotesi che Angela Merkel ha sembrato non gradire, e se effettivamente Draghi dovesse lasciare la poltrona dell’Eurotower, la Germania avrebbe una prateria per nominare il nuovo presidente della BCE più gradito agli interessi e ai desiderata tedeschi, che di certo non farà il QE. Un innalzamento dei tassi di interesse, renderebbe insostenibile per gli stati membri il pagamento del debito, e a quel punto la manovra che potrebbe scongiurare l’eventuale default, in questo caso reale, sarebbe quella di un prelievo forzoso, per attingere alla liquidità bloccata del risparmio di molti italiani, per ripagare i debiti con l’estero. 

Un risparmio che fa gola alla Germania, che ha già parlato di “ risparmio eccessivo degli italiani”. Solamente allora, l’Italia verrà lasciata andare. In questo caso l’uscita dall’euro è contemplata, di certo non nel modo che molti economisti vorrebbero, attraverso una pianificazione ragionata, ma secondo gli obbiettivi di forze esterne che accompagneranno il Paese sull’orlo del baratro per poi scaraventarcelo. Le analogie con un altro anno infausto, il 1992, ci sono e molte, anche se in quel caso uscimmo a caro prezzo dallo Sme dopo numerosi attacchi speculativi della finanza internazionale e aver svenduto i gioielli di famiglia. Vent’anni dopo, la situazione è molto più drammatica, dopo 5 anni consecutivi di recessione e una disoccupazione arrivata a livelli intollerabili. Quali riflessi potrà avere un’uscita  dall’euro in questo modo, su un Paese già profondamente provato, è una previsione difficile da fare, ma sarà meglio tenersi pronti a questa eventualità.

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