"La Consulta troppo debole di fronte al governo tecnico pluriventennale che da Bruxelles calpesta la Costituzione".
L'intervista a Luciano Barra Caracciolo
Luciano Barra Caracciolo, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, che ha denunciato nel suo libro “Euro e (o?) democrazia costituzionale - La convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei “ l’incostituzionalità dei Trattati europei, descrive l’inefficacia delle politiche di riduzione del deficit pubblico, basate sul modello economico neoliberista caro alla Commissione Europea. Politiche che di fatto continuano a precipitare il Paese in una recessione ancora maggiore, con il Governo che puntualmente elabora previsioni di ripresa che fino ad ora non si sono mai realizzate.
- Dottor Barra Caracciolo, partiamo dalle previsioni d’autunno
della Commissione Europea, secondo le quali l’Italia non raggiungerà il
pareggio di bilancio nel 2017. Secondo la Commissione il disavanzo
strutturale aumenterà dallo 0,9 % all’ 1%. Kaitanen, vicepresidente con
delega alla crescita, agli investimenti, e all’occupazione sottolinea
l’importanza di rispettare il Patto di Stabilità. All’Italia saranno
chieste misure correttive? Se sì, di che tipo?
Parlare di decimali su indicatori come “disavanzo strutturale” e
crescita, in relazione ai modelli economici utilizzati dalla Commissione
è praticamente privo di senso. Le previsioni effettuate in base al loro modello economico si rivelano costantemente sbagliate. Questo
perché muovono dal presupposto neo-liberista della “neutralità” del
deficit pubblico, la cui riduzione sarebbe “espansiva” in base ad uno
spiazzamento dal bilancio pubblico agli investimenti privati.
Un’autentica follia che dovrebbe portare a risposte ben più nel merito
della sostenibilità delle politiche imposte da parte dei nostri
responsabili economici. A parte che in presenza di saldi primari
costanti e di dimensioni senza pari in Europa, e probabilmente al mondo,
la sola ipotesi dello spiazzamento (quando l’onere degli interessi
assorbe sia il disavanzo che lo stesso saldo primario in forma di
trasferimenti, per di più in parte esteri) contrasta evidenze
elementari, la vera preoccupazione non è tanto se ci chiederanno
inevitabili misure correttive, quanto se il livello di recessione in cui
ci troveremo anche con la manovra di stabilità attuale, non rispettosa
del demenziale Patto di stabilità, possa tollerare politicamente e
socialmente tali “misure”.
Ma il nostro governo accetta implicitamente tale modello di (de)crescita infelice,
replicando in balletti di cifre e su modalità di copertura del tutto
improbabili, e continua anch’esso, da quattro anni ormai, a sfornare
previsioni errate di presunta uscita dalla recessione.
- Il ministro Padoan nella lettera di chiarimenti inviata a
Bruxelles ribadisce un impegno del Governo a cedere asset pubblici per
un 0,7% di Pil, pari a circa 11 miliardi di euro. L’obiettivo del
Governo è quello di cedere Poste, ENAV, e Fs nel 2015. La logica per
giustificare questo tipo di operazione, è quella di una riduzione del
debito pubblico, anche se nelle precedenti dismissioni delle
partecipazioni statali del 1992 gli effetti sulla riduzione furono
minimi, al contrario si verificò un aumento del livello del debito.
Quali saranno gli effetti di queste privatizzazioni e non si corre il
rischio di affidare a monopoli privati la gestione di servizi pubblici
fondamentali?
Su tale argomento ormai praticamente tutti continuano inutilmente ad
evidenziare che la misura di abbattimento del debito-stock, è tale da
non giustificare di privarsi di quote societarie che danno un flusso di
profitti, cioè di entrate dello Stato, che sono ben superiori
all’attuale onere “medio” dei titoli del debito in circolazione e anche
in emissione. Che dire? Poi dovranno aumentare le tasse o tagliare i servizi; e questo dopo aver svenduto con intempestive cessioni in un momento di mercato sfavorevole per l’Italia.
- Dagli anni’90 in poi con l’introduzione delle authority
nell’ordinamento italiano, il controllo sulla concorrenza e sui prezzi è
affidato a queste agenzie. I dati pubblicati nel 2013 dalla CGIA di
Mestre parlano di un aumento generalizzato di quasi tutti i servizi,
come le assicurazioni, l’acqua, il gas e la luce, lamentando una
gestione di monopoli naturali in mano ai privati. Qual è il suo giudizio
sull’operato delle authority e sulla privatizzazione dei servizi
pubblici?
Sono due problemi separati: la logica delle Authority è quella UE, di negazione radicale dell’art.43 Cost.,
che è norma di rango costituzionale che riflette principi fondamentali
dell’ordinamento democratico, e perciò risponde all’idea che monopoli
naturali o, nella migliore delle ipotesi, situazioni di oligopolio,
diverrebero “concorrenziali” se affidati ai privati anziché alle
politiche tariffarie dei governi. Le Authority agiscono, facendo il
possibile, sulla struttura di mercato che trovano e sul presupposto che
l’idea di “forte competizione” ordoliberista, immaginata dai trattati,
non abbia riscontro nella realtà. In situazione di (almeno) oligopolio
la crescita dei prezzi superiore all’inflazione, la riduzione degli
investimenti e dell’innovazione tecnologica, la compressione salariale e
del livello di occupazione, sono praticamente una certezza.
La CGIA di Mestre, invece di fare le consuete lamentele, genericamente
rivolte contro l’inefficienza pubblica (una vera ossessione), dovrebbe
interrogarsi sulla “struttura” dei mercati privatizzati e sul perché, in
tutta Europa, si registrino queste stesse conseguenze.
- Quali strumenti giuridici ha in mano l’Italia per recedere dal
Trattato di Maastricht? Secondo lei, è possibile invocare un recesso
attraverso l’art.60 della Convenzione di Vienna, lamentando un
inadempimento degli altri stati membri delle clausole del Trattato, come
quella del 3% di deficit/PIL, più volte violata da Germania e Francia?
E, infine, qual è lo scenario più praticabile?
Ho già ampiamente analizzato le violazioni plurime dei trattati, o, ad
essere benevoli, l’evidente sopravvenuta disfunzionalità delle loro
regole, che giustificherebbero un recesso “causale”, secondo la Convenzione di Vienna, per "inadempimento della controparte" (art.60: principio “inadimplenti non est adimplendun”) e per sopravvenuta impossibilità dell'esecuzione (art.61 c.d. clausola rebus sic stantibus,
art.61). La questione è politica ma anche culturale: bisogna “voler”
guardare agli effetti distruttivi di tali regole sulla realtà
industriale e sociale italiana e “saperli” collegare ai principi
codificati del diritto internazionale generale.
Entrambe queste operazioni, volitiva e cognitiva, non paiono essere
oggetto di determinazioni delle autorità prese nell’interesse
fondamentale della Nazione.
- Nel suo saggio “ Euro e(o) democrazia costituzionale” lei
sottolinea l’incompatibilità giuridica tra i trattati europei e la
Costituzione. E’ immaginabile che la Corte Costituzionale possa
esprimersi in tal senso su questa questione?
Mi “consenta” di essere sfiduciato su questa prospettiva, che pure
propugno con l’indicazione di precisi percorsi, aderenti ai principi più
importanti e immodificabili della Costituzione. Aggiungo: sfiduciato
“ormai”, cioè…rebus sic stantibus.
Come ho altresì indicato nel Convegno dell’8 novembre, abbiamo pure un
ostacolo enorme nella carenza di previsioni costituzionali sulla
remissione diretta, e tempestiva, alla stessa Corte costituzionale.
Quand’anche cioè disponesse delle “risorse culturali”, di raccordo tra
diritto ed economia, menzionate alla risposta precedente.
- Come giudica l’istituzione della milizia sovranazionale
Eurogendfor, entrata in vigore con il Trattato di Velsen nel 2007? Il
trattato in questione attribuisce ai membri del suo personale
un’immunità relativa all'esecuzione di una sentenza emanata nei loro
confronti dello Stato ospitante, per un caso collegato all'adempimento
del loro servizio (art.29, comma 3) e l’impossibilità da parte della
magistratura italiana di intercettare le comunicazioni indirizzate a EGF
(art. 23), con il divieto di accesso agli archivi e di perquisizione
degli edifici di Eurogendfor. Siamo di fronte a un’altra violazione
della Carta ed è un rischio per la democrazia costituzionale una forza
di polizia di questo tipo?
Devo confessare che questa prospettiva autoritaria, che per molti versi
ha dell’incredibile, mi preoccupa poco. La stessa immunità è garantita
con clausole analoghe a tutti gli organi tecnocratici della governance
UE; ma la cedevolezza italiana di fronte alle imposizioni della moneta
unica, dimostra che il rischio di “sospensione abrogativa” (una sorta di
desuetudo inammissibile) della Costituzione, è in atto senza che neppure si debba ricorrere a Eurogendfor o a forme analoghe di autoritarismo “esplicito”.
- Il precedente che viene spesso usato per descrivere un paragone
con l’Euro a livello economico, è quello dello SME, dal quale l’Italia
uscì nel 1992 dopo forti speculazioni finanziarie e con lo
smantellamento delle partecipazioni statali. La transizione all’epoca fu
gestita da un governo tecnico, il governo Amato. Andiamo incontro allo
stesso scenario, con un’uscita dall’euro gestita da un governo tecnico?
Lo Sme è stato una prova generale, tutto sommato ben
riuscita, visto che mentre falliva, e successivamente alla dimostrazione
che senza il vincolo monetario l’Italia aveva rapidamente ripreso la
competitività della sua produzione, ci siamo immediatamente prestati,
senza dubbi e obiezioni, al rilancio della convergenza di Maastricht ed
alla “irrinunciabile” entrata nell’euro.
E questo senza neanche considerare l’ipotesi, dibattuta consapevolmente
nell’opinione pubblica, di un “opting out” o della conservazione
indefinita dello status di “paese con deroga”, in cui si trovano
comodamente, crescendo, gli unici paesi UE che non stanno nell’euro.
Tutta l’UEM è alle prese con stagnazione, recessione e aumento
vertiginoso del debito pubblico (anche in misure ben maggiori di quelle
italiane)… Tranne la Germania: per ora…
- Le situazioni emergenziali nella storia recente del Paese,
vengono gestite da governi tecnici, espressione spesso di poteri
finanziari e sovranazionali. Negli ultimi 3 anni in particolare sono al
potere governi non espressione della volontà popolare con il ruolo del
Capo dello Stato , avvicinatosi più a quello di una repubblica
presidenziale. Si può ancora dire che l’Italia appartiene ad un contesto
istituzionale democratico vicino ai dettami della Costituzione?
La risposta al quesito è in fondo già data dalle risposte precedenti.
Quanto ad isolare i singoli episodi di governi tecnici da quelli
presuntivamente politici, dipende dall’idea di “politica” che si vuole considerare conforme alla Costituzione.
Se, come accade praticamente, (almeno), a partire dall’adesione a
Maastricht, la sovranità democratica, - cioè la cura, da parte delle
Istituzioni costituzionali di indirizzo politico, dei diritti
fondamentali sociali caratterizzanti la nostra Repubblica - è
subordinata al vincolo esterno, la politica perde la sua caratteristica
natura di scelte libere nei fini, purché vincolate al rispetto dei
principi fondamentali della stessa Costituzione.
Abbiamo cioè un unico pluriventennale governo tecnico che però decide essenzialmente a Bruxelles e
senza tener conto dei principi e dei diritti fondamentali della
Costituzione. Basti dire che i tedeschi, attraverso gli arresti ( Urteil),
Lutz, Solange e Lissabon, hanno praticamente subordinato tutte,
indistintamente, le fonti “europee” al sindacato di compatibilità
costituzionale preventivo, esercitato dalla loro Corte costituzionale su
rinvio del parlamento (o anche di privati cittadini). E si valorizza il
giudizio sovrano e insindacabile dello stesso parlamento sulla
accettabilità e direzione della “integrazione europea”.
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