mercoledì 19 novembre 2014

Il suicidio di Abe



Tagli alla spesa e aumento della pressione fiscale: ennesimo fallimento del diktat neo-liberista



Il caso del Giappone del Premier Shinzo Abe, indica ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come le dinamiche neoliberiste applicate nella pratica economica siano ben distanti dalla realtà e producano effetti contrari alle aspettative desiderate. Questo perché, il mondo pensato dai neoliberisti, è qualcosa che esiste solo nel loro immaginario dove i consumatori si comportano secondo uno schema preordinato e fiabesco, e quando si vedono gli effetti reali delle politiche di tagli alla spesa e aumento della pressione fiscale, tutti cadono dal pero e gridano all’imprevedibilità degli eventi. 
 
Una soluzione che assomiglia molto a quello dell’Eurozona, ma partiamo dal Giappone di Abe, per il quale tutti i quotidiani economici hanno gridato al crollo inaspettato quando le premesse che lo annunciavano erano già predisposte. Il Giappone, nel primo trimestre del 2014, realizza una crescita del 1.6% di PIL, quando in aprile il premier Abe, seguendo le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale, su una riduzione del deficit statale, decide di alzare la tassa sui consumi dal 5 al 8%, argomentando la decisione con questa motivazione: ”Ho preso la decisione di alzare la tassa sui consumi, dal 5 al 8%, per mantenere alta la fiducia nel paese e consegnare un sistema previdenziale sostenibile alle prossime generazioni”. 
 
In realtà, il Giappone in quel momento non si trovava in una situazione di sfiducia da parte dei mercati, la sua inflazione era stabile, i titoli del debito erano comprati dagli investitori e i tassi di interessi in controllo. Gli effetti recessivi dell’aumento della pressione fiscale si faranno sentire nel secondo trimestre, con un calo del 7.3%, con il settore privato delle famiglie e degli investitori scoraggiato visto il maggior carico fiscale sui beni di consumo, e con un ulteriore diminuzione del 1,6% nel terzo trimestre senza che il Governo cambiasse rotta.  Abe avrebbe voluto procedere con un secondo aumento delle tasse al consumo su una base del 10% ad ottobre, ma con i risultati ottenuti sulla crescita del PIL si ipotizza un rinvio del rincaro al prossimo anno, probabilmente da confermare in base ai risultati elettorali del prossimo dicembre, poiché Abe ha deciso di sciogliere le Camere e indire le elezioni anticipatamente per ottenere un nuovo mandato con la legittimazione popolare. Una politica economica dettata dalla decisione di abbassare il debito con la compressione della spesa, che non ha dato gli effetti sperati, anche se questo non deve stupire perché le raccomandazioni del Fondo Monetario e dell’Ocse si rivelano puntualmente errate. 
 
L’idea che la riduzione del deficit incoraggi gli investimenti privati, deriva dalla convinzione, smentita dai risultati oggettivi, che il privato sia propenso ad investire perché maggiormente “rassicurato” da una riduzione del deficit statale. Un assioma che non trova corrispondenza nella realtà quotidiana, quando è vero il contrario, quanto più lo Stato aumenti la propria spesa tanto più il privato avrà benefici ad investire, perché quando lo Stato spende e fa deficit, la liquidità emessa finisce nelle tasche dei privati, incoraggiati questa volta per davvero, ad aumentare i consumi e allocare le risorse in investimenti. Il debito aumenterà solo inizialmente, ma gli effetti sul debito nel medio e lungo periodo saranno di riduzione perché con l’aumento del PIL, si avrà anche una maggiore introito fiscale. Uno schema corretto e virtuoso che non è applicato, non tanto per la sua validità intrinseca e provata dalle fattualità economiche, ma perché si insegue un modello ideologico preciso, che mira alla tutela dei pochi soggetti sul mercato che traggono giovamento da una crisi economica e dalla contrazione della spesa. 
 
L’esempio su tutti che dimostra nel caso italiano che lo schema consigliato dagli organismi internazionali è completamente errato, è quello del governo Monti che applicando la politica dei tagli alla spesa e dell’aumento della pressione fiscale ha portato il debito pubblico dal 120% al 130%. Tornando al Giappone ,Kenichiro Yoshida, economista al Mizuho Resarch Institute, ha dichiarato il suo stupore per la riduzione dei consumi: “ E’ molto più debole di quello che ci aspettavamo, la crescita dei consumi è molto debole, questa è la ragione per la quale il governo può decidere di spostare più avanti l’aumento delle tasse”. Ma questo non desta sorpresa, se si riduce lo stimolo fiscale, aumentando la tassa sui consumi è ovvio che si andrà incontro a un calo della domanda interna. 
 
L’indicazione di agire in tal senso, è arrivata ancora una volta dall’Ocse a settembre, dopo già aver registrato il crollo del Pil nel secondo trimestre, raccomandando riforme strutturali ed un ulteriore aumento della pressione fiscale che avrebbe dovuto avere luogo ad ottobre, ignorando che la ripresa non poteva avere luogo con quelle scelte economiche. L’Ocse ha suggerito una manovra prociclica, che non va a colpire le cause della riduzione del PIL e non stimola la domanda aggregata. Le due leve che ha in mano il governo per costruire la crescita , sono la spesa pubblica e le tasse, se aumenterà la prima e diminuirà le seconde , la domanda sarà stimolata rapidamente, aumenteranno i consumi, gli investimenti privati e la disoccupazione calerà inevitabilmente.

La Banca del Giappone, per invertire la tendenza ha utilizzato in modo massiccio lo strumento del quantitative easing, ovvero la monetizzazione del proprio deficit con l’acquisto dal settore privato dei titoli del debito per ridurre il tasso di interesse, compiendo un’operazione di politica monetaria che singolarmente ha dato scarsi risultati. Le operazioni di politica monetaria se non accompagnate da uno stimolo della domanda interna , aumento del deficit e riduzione fiscale, possono fare ben poco per invertire la tendenza. Quello che l’Eurozona non continua a fare, ma ad ignorare persistentemente.

Lo stesso Draghi, ha recentemente annunciato il ricorso al QE, per stimolare la ripresa, mai cominciata, e sostenere l’economia dell’Eurozona, ricordando ai governi degli stati membri di tagliare la spesa. Un’operazione, che già sappiamo essere inutile se non accompagnata da una diversa politica economica. La ripresa, ormai lo hanno capito anche i più digiuni di nozioni economiche, non avrà mai inizio seguendo le strategie dell’austerità che piovono dall’Ocse, dal Fmi e dalla Bce, che continuano a chiedere riforme strutturali, in realtà cartine di tornasole per colpire il salario e i risparmi.

martedì 18 novembre 2014

Le macerie di una guerra firmata e scritta nei Trattati internazionali



"Stiamo assistendo a grotteschi cambi di fronte, ma non sia chi ha distrutto a fare la ricostruzione"


 
Macerie, volti piangenti, grida di disperazione dal cuore delle periferie italiane abbandonate e ricordate solo per tristi passerelle che lasciano spazio al cinismo politico accatta voti.  Lo sfondo è quello di un paese in disfacimento, avviato verso la sconfitta della guerra economica che si è combattuta negli ultimi anni, e di cui molti non sanno di essere entrati. 
 
Una guerra firmata e scritta nei Trattati internazionali, pezzi di carta secondo la vecchia dottrina del diritto internazionale, dai quali una volta si recedeva se il bene della comunità era compromesso, ma che oggi inchiodano il Paese all’autodistruzione volontaria. Una guerra non convenzionale, che è stata dichiarata al Paese da forze sovranazionali, incappucciati della finanza secondo la bella espressione di Federico Caffè, l’economista italiano caposcuola del keynesianesimo italiano, che ha lasciato un grande vuoto, colmato dalla nuova dottrina neoliberista instauratasi nelle università e che sforna laureati in economia, ripetitori delle formule meno Stato, più mercato e con lo spettro del debito pubblico come colpa primigenia degli sprechi e della malversazione italiana, oppure  delle funzioni dello Stato del benessere, sanità, istruzione, scuola e tutti i servizi pubblici somministrati dalle nazioni civili e degne di ricoprire questo nome. 
 
Una narrativa fraudolenta e capziosa, ripetuta da funzionari del sistema finanziario, quella sui dati della spesa pubblica italiana, tra le più basse d’Europa da un trentennio e più. Se si cammina per le strade della città italiane, si farà fatica a distinguere i tratti abbrutiti di quello che era una volta il giardino d’Europa, il luogo dove l’arte, la cultura, erano tutelate e dove era ancora possibile vivere una vita a misura d’uomo, lontano da un modello frenetico e arrivista, che rimbalzava dalla cultura anglosassone, con al centro il mercato e gli interessi commerciali. 
 
Esistono vari modi per attaccare uno stato sovrano. John Perkins, ex collaboratore al servizio delle multinazionali americane, descrive in particolare la guerra economica, che obbliga lo Stato a contrarre debiti onerosi verso l’estero che non potrà ripagare, per poi spolparlo di tutti i servizi pubblici essenziali con privatizzazioni selvagge. Un attacco di questo genere, per poter avere successo ha bisogno della sponda interna, di una classe politica che acconsenta e permetta la realizzazione di un tale piano. La guerra economica di casa nostra, è stata una resa incondizionata, firmata nel 1992, dove gli squilibri dell’unione monetaria e la cessione di sovranità di fatto hanno reso lo Stato una colonia in vendita da poter comprare a prezzo di saldo. 
 
Una resa firmata senza che l’accademia e la politica denunciassero o impedissero per tempo questa disfatta lacerante, dalla quale per ripartire occorrerà uno sforzo complessivo immane, non solamente sotto il profilo degli investimenti economici, ma anche dal lato culturale, perché da molto tempo ormai siamo chiamati ad essere un Paese non solo quando l’Italia scende in campo per i mondiali e gli europei, oppure per sostenere la squadra in Champions League, dove ognuno sa benissimo calcolare i punteggi e la differenza tra goal subiti in casa e fuori. Negli attimi prima della fine annunciata dell’Euro, assistiamo a grotteschi cambi di fronte, improvvise e improvvide conversioni sulla via di Damasco, impersonate da personaggi pronti  a cavalcare il tema del domani, la sovranità e l’antieurismo, così da poter vestire i panni della credibilità, pronti a ricevere gli onori dopo il crollo annunciato. 
 
Il gattopardo, è davvero la filosofia di pensiero ricorrente, e il voltafaccia rimane sempre presente nella tormentata storia del Belpaese. Se c’è stata una guerra e il vincitore ha l’accento straniero, è stato possibile solo grazie a una sponda di italiani che hanno aperto le porte all’invasione, a quei politici come Giuliano Amato o Mario Draghi dalle indubbie competenze giuridiche ed economiche, messe a disposizione di poteri esterni, in cerca di un mero tornaconto personale. 
 
Nel 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, la resa avvenne consapevolmente, l’Iri venne smantellata e regalata a Goldman Sachs su mandato di Mario Draghi. Vent’anni dopo, la guerra è all’apice, le teste di ponte utilizzate per avanzare, si chiamano Renzi e Monti, ma molti ancora non hanno ben compreso le cause ma ne esperimentano gli effetti, con strade dissestate e allagamenti in ogni regione d’Italia. Questi i doni concessi dal patto di stabilità interno, che obbliga gli enti locali ad avanzi di bilancio, e nonostante ci siano i soldi nelle casse dei comuni, questi non possono attingere ai fondi, perché c’è il vincolo esterno. 
 
Quale vincolo è più criminale e iniquo, di quello che mette a repentaglio l’incolumità dei cittadini? Quale stato hanno in mente gli uomini e le donne del governo che applicano l’agenda delle elite sovranazionali, che hanno in disprezzo la vita delle persone comuni? Quando la guerra finirà, molti avranno cambiato parere e casacca sulle azioni compiute in passato, ma qualcuno dovrà pur rispondere di aver firmato dei trattati incostituzionali, della svendita del patrimonio dello Stato, delle vite perse degli imprenditori, della disoccupazione che continua a mordere le famiglie italiane, dei giovani che hanno lasciato il Paese in cerca di fortuna all’estero, della perdita del patrimonio culturale e industriale. 
 
Una ricostruzione del Paese dovrà anche tenere conto di chi colpevolmente ha permesso o di chi ha taciuto, quando vedeva il Paese morire voltando la testa dall’altra parte per puro calcolo personale. Non sia chi ha distrutto a fare la ricostruzione, ma coloro i quali hanno davvero a cuore il bene comune e hanno sofferto una violenza e una disperazione che credevamo di avere dimenticato.

lunedì 17 novembre 2014

UNICE, ERTI: alla scoperta di chi governa realmente nell'Unione Europea



Una giustizia senza sanzioni e un governo non eletto: il modello europeo



I processi decisionali degli stati appartenenti all’Unione Europea sono stati da tempo trasferiti nella mani dell’organismo sovranazionale, vero governo europeo, noto come Commissione Europea. In realtà, poco si sa della Commissione, delle procedure di nomina e dei poteri attribuiti ad essa.

La Commissione Europea, è strutturata come un governo nazionale, con 28 direzioni sul modello dei dicasteri degli stati membri, ad ognuno dei quali compete un settore di competenza; esteri, economia, ambiente, immigrazione, etc. I commissari europei non sono eletti dai cittadini degli stati membri, e l’ultima campagna elettorale andata in scena a Bruxelles per convincere i cittadini europei a preferire Juncker piuttosto che Schulz aveva un sapore grottesco, considerato che il potere di nomina del Presidente della Commissione avviene dentro il Consiglio Europeo, organo di rappresentanza degli stati membri. 
 
L’assemblea rappresentativa del Parlamento Europeo, è eletta dai cittadini europei, ma essa non dispone di un potere di sfiducia cogente nei confronti della Commissione, che teoricamente è il Governo europeo. La struttura dell’Ue di fatto ha partorito un parlamento senza poteri di sorta, dalle proporzioni elefantiache , con una doppia sede, e privandolo di un potere fondamentale presente nelle repubbliche parlamentari, quello di sfiducia verso il suo governo  e non introducendo l’obbligo dell’esecutivo europeo, di rispondere del proprio operato di fronte all’assemblea parlamentare. Una struttura, quella europea, priva delle basi delle democrazie costituzionali. Se la Commissione non risponde al Parlamento, abbiamo un caso di Governo con poteri legislativi permeanti per la vita dei cittadini europei, che sforna direttive e regolamenti capaci di superare gerarchicamente  il diritto nazionale e disapplicare il diritto degli stati membri.
 
Quali sono le considerazione e i fattori che influenzano una direttiva o un regolamento europeo? Bruxelles è il luogo privilegiato del lobbismo internazionale insieme a Washington. La differenza tra i due tipi di lobbismo giace nella “ trasparenza” di quello statunitense, dove esiste un registro pubblico dei lobbisti per i quali è obbligatoria l’iscrizione, mentre per quello europeo, c’è un registro noto come il “ Registro della Trasparenza” (sic!) ma l’iscrizione è su base volontaria e il lobbista che opera a Bruxelles può decidere di rimanere anonimo. Sostanzialmente, il lobbismo USA è meno “ipocrita” di quello europeo, dove nel modello capitalistico anglosassone , il liberismo e la pressione esercitata dai gruppi finanziari e industriali non va celata, ma resa pubblica per trasmettere un’immagine di legalità che non contribuisce certo a tutelare e rendere effettivi gli interessi dei cittadini comuni. 
 
Chi dispone del capitale in abbondanza, ha più probabilità di convincere e influenzare le istituzioni nella direzione desiderata.  In questo "liberismo concorrenziale" si fissano regole in contraddizione con le reali capacità economiche e finanziarie dei membri della sua società. I gruppi, privi di potenza finanziaria saranno sempre esclusi o inascoltati dai vertici. Il lobbismo europeo non obbliga a far sapere chi fa parte dei conglomerati di potere che hanno il potere di influenzare il 75% delle decisioni prese dalla Commissione Europea, alla quale è stato dato un potere legislativo superiore alle fonti del diritto nazionale, che di fatto esprime gli interessi di altri gruppi di pressione. 
 
Gli organismi di pressione che godono di maggiore considerazione nei corridoi di Bruxelles, dove si aggirano ben 30000 persone al servizio delle lobby, sono l’UNICE, il gruppo che rappresenta le confederazioni industriali dei paesi dell’Unione, e l’European Round Table of Industrialists (ERTI) formata da 50 presidenti e amministratori delle più importanti aziende europee. Un coacervo di interessi forti, dove le associazioni dei consumatori, dei lavoratori, e degli ambientalisti vengono sovrastati dalla potenza dei gruppi forti, e le direttive della Commissione sono di conseguenza l’espressione degli interessi che mirano alla globalizzazione economica, ossequiosi all’obbiettivo della deflazione salariale  e della tutela delle megacorporation.  
 
Gli interessi dei lavoratori europei  sono interessi deboli di fronte a quelli dei produttori, basti pensare tra la numerosa casistica, ai produttori di scarpe che da tempo hanno spostato la loro produzione al di fuori dell’Europa, domandando e ottenendo parametri tecnici e di sicurezza inferiori agli standard europei. La teoria del commercio senza restrizioni e controlli, è favorita dalla Commissione che ha tutto l’interesse a far affluire sui mercati nazionali prodotti a basso costo importati dall’Est asiatico, in modo da poter ottenere la riduzione delle tutele del lavoro e abbassare il costo del lavoro in Europa.  Quando si sente la reprimenda del Commissario europeo di turno all’Italia chiedendole più tagli allo stato sociale e meno tutele sindacali, va ricordato che il Commissario de facto ha solo la veste di un portavoce, applica l’agenda di un potere finanziario e industriale che nulla ha in comune con gli interessi del Paese. 
 
Allo stesso Commissario è garantita “l'immunità di giurisdizione per gli atti da loro compiuti in veste ufficiale, comprese le loro parole e i loro scritti”( art.11 Protocollo 7 TFUE) . Di fatto, la Commissione che lancia l’allarme corruzione in Italia, forse dovrebbe guardare nei meandri dei suoi corridoi, poiché se un tale gruppo di lobby è presente a Bruxelles, ed esercita un’influenza determinante sulla  direttiva  da approvare più confacente agli interessi delle multinazionali,  ci si domanda chi ha il potere di controllare che la Commissione stia agendo effettivamente negli interessi dei cittadini europei? 
 
Chi può verificare e stabilire se un Commissario non abbia preso sovvenzioni per fare approvare un provvedimento a vantaggio di un gruppo di potere contro gli interessi collettivi? Esiste un precedente in cui la Commissione Europea, si dimise in blocco a seguito del sospetto di corruzione e fondi neri,  ed è quello della Commissione Santer nel 1999 quando due dei commissari membri, Edith Cresson e Manuel Marin, finirono nell’occhio del ciclone per malversazioni. In particolare il Commissario francese venne poi sottoposto al giudizio della Corte di Giustizia della Comunità Europee, che ha emesso una condanna nei confronti della Cresson, senza però sanzionare effettivamente la sua condotta, lasciando intatto il suo diritto alla pensione da commissario.  Una giustizia  senza nessuna sanzione e un governo non eletto.  Un modello in stile UE.
 
 

venerdì 14 novembre 2014

La Francia indica la via: ecco perché l’Italia può uscire dal Trattato di Maastricht




Il diritto internazionale con la Convenzione di Vienna è molto chiaro al riguardo...


Pubblicato il 2/10/2014


Nell’Europa degli interessi e dell’austerità sociale, se avrete la sfortuna di essere italiani, ciprioti o greci conterete meno del due di coppe e dovrete allinearvi senza discutere a tutti gli ordini e direttive che calano da Bruxelles con buona pace dell’integrazione forzata europea che doveva valorizzare l’importanza e il peso dei singoli stati. Se invece siete francesi o addirittura tedeschi, potrete ancora dire la vostra e quando lo riterrete più opportuno e necessario per i vostri interessi nazionali potrete violare i Trattati, senza avere timore di conseguenze particolari, visto il ruolo e l’importanza che ricoprite nel processo decisionale e non sarete disposti molto probabilmente a suicidarvi in nome dell’austerity. 
 
La Francia si ricorda di essere la Francia e ieri per bocca del suo Ministro delle Finanze ha annunciato che non rispetterà il famigerato parametro del 3% di deficit sul PIL, prescritto nel Trattato di Maastricht, ma lo supererà di più di un punto percentuale. Si tratta di una violazione dichiarata ed esplicita di un trattato internazionale, e non è la prima volta che accade, basti ricordare che la Germania violò per ben 3 volte consecutive questa prescrizione dal 2003 al 2005, anche se qui la memoria teutonica avrebbe bisogno di essere rinfrescata perché all’epoca non predicava affatto né rigore né austerità, per passare alle violazioni della Francia con il 7% di deficit nel 2009, fino a quelle della Spagna nel 2010 con il 9,27%. 
 
Dal punto di vista del diritto internazionale l’Italia ratificando il Trattato di Maastricht ha aderito ad un accordo multilaterale. La vita di qualsiasi trattato o accordo internazionale in passato era legata alla volontà degli stati che lo avevano firmato, ovvero l’esistenza e la durata degli accordi venivano meno qualora uno degli Stati firmatari prendesse la decisione di recedere unilateralmente o perché riteneva che l’altra parte non stesse rispettando il contenuto dei trattati, oppure perché si era verificato un cambiamento delle condizioni iniziali che erano irrinunciabili per la validità del trattato. 
 
La regola da seguire secondo Bismarck, Cancelliere tedesco del XIX secolo forse più lungimirante dell’attuale Cancelliera Merkel, sugli accordi era “l’osservanza dei trattati tra le grandi potenze, in effetti, è relativa, come si nota quando tale osservanza è posta a confronto con la lotta per la sopravvivenza. Nessuna grande potenza è disposta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fedeltà ad un trattato, se obbligata a scegliere tra le due cose.” L’Italia a quanto pare continua ad andare contro i suoi interessi di nazione e di grande potenza , “sacrificando la propria esistenza” per adempiere alle condizioni un trattato che le altre parti firmatarie non rispettano e violano ripetutamente, e segue pedissequamente le istruzioni della Commissione Europea senza opporre resistenza, nonostante i conti dell’Italia siano tra i più ordinati rispetto agli altri stati e sia stato perseguito insistentemente l’avanzo primario, con la compressione del livello della spesa pubblica. 
 
Quali alternative ha a disposizione l’Italia dal punto di vista giuridico per uscire da una situazione di impasse che sta gravemente compromettendo il funzionamento della sua economia con le conseguenze che conosciamo? La Convenzione di Vienna del 1969, a cui l’Italia ha aderito, ha posto fine all’arbitrarietà decisionale sul rispetto dei trattati e sulle condizioni di recesso o denuncia degli stessi. Sull’inadempimento del trattato, l’art.60 della Convenzione stabilisce che la violazione sostanziale da parte di uno degli stati firmatari può dare luogo alle cause di estinzione o sospensione degli accordi, lasciando la discrezionalità sulla scelta  dell’estinzione o della sospensione allo Stato che invoca l’inadempimento. Nel caso del Trattato di Maastricht, ci troviamo di fronte a violazioni sostanziali degli accordi ripetute più volte dagli Stati membri (Germania, Francia, Irlanda, Spagna) e lo scopo e l’oggetto del Trattato sono stati traditi, poiché il 3% di deficit sul PIL è stato pensato per contenere i livelli di deficit degli Stati membri e quindi appare evidente che superando sistematicamente questa soglia lo scopo e l’oggetto del Trattato vengono meno. 
 
Noi aggiungiamo che il 3% è una soglia completamente arbitraria dal punto di vista scientifico ed economico, non potendo esistere in economia un livello ottimale prestabilito di deficit, il quale è uno strumento utilizzato dallo Stato per aumentare o ridurre la spesa pubblica a seconda delle particolari contingenze economiche, ma è stato inserito nel Trattato di Maastricht e pertanto se gli altri stati membri decidono di violarlo unilateralmente, contraddicendo il detto Pacta Sunt Servanda, l’Italia ha tutto il diritto di utilizzare gli strumenti della Convenzione invocando l’inadempienza delle altri parti e lasciarsi alle spalle un periodo di sfacelo economico e sociale che non conosceva dal dopoguerra. 
 
La Francia ha semplicemente fatto i suoi interessi, poiché la sua economia è in grave sofferenza e la produzione industriale ha fatto registrare un ennesimo calo, da qui la decisione di superare il 3% non solo per motivi economici ma anche politici, con un Presidente Hollande già fortemente indebolito e una maggioranza parlamentare non più solida, questo annuncio forse vuole calmare la pressione su Hollande. Se dunque gli strumenti esistono e sono a disposizione del Governo italiano, perché si continuano a fare annunci di voce grossa in Europa quando basterebbe minacciare la sospensione o l’estinzione degli accordi?

giovedì 13 novembre 2014

Quando uno Stato è legittimato a non ripagare il proprio debito estero

 

Tra debito e garanzia dei diritti fondamentali ai propri cittadini, il diritto internazionale è molto chiaro su chi deve prevalere



 
Che l’austerity fosse profondamente sbagliata sotto il profilo economico e desse risultati ancora peggiori nell’ammontare del debito pubblico è stato più volte ricordato e gli effetti nocivi li vediamo sotto i nostri occhi. 
 
L’aspetto che va più messo in luce è quello di uno stato sovrano funzionante con specifici limiti alle sue obbligazioni, nella fattispecie debiti contratti con altri stati e/o compagnie private straniere. Tradotto: può uno Stato per ottemperare al pagamento di un debito negare sé stesso e rinunciare a tutti i servizi essenziali che ad esso sono connaturati e irrinunciabili, come la sanità, la sicurezza pubblica, la tutela dell’ambiente e le politiche occupazionali instaurando uno stato di anarchia
 
A quanto pare no, e non è una velina sovranista a propugnare un tale concetto eversivo agli occhi di molti osservatori e dei valletti della finanza internazionale, ma la dottrina internazionale rappresentata in questo caso dalla ILC (International Law Commission) che nel relativo annuario del 1980 ci fornisce lumi su quel caso peculiare in cui uno Stato può invocare quello che viene definito uno ”stato di necessità” , ovvero quella particolare situazione in cui il debito contratto dallo Stato X nei confronti dello Stato Y possa non essere adempiuto se si dovessero verificare condizioni di impossibilità al pagamento dell’obbligazione e per le quali lo Stato X debitore se dovesse eseguire il pagamento, sarebbe costretto a privare i cittadini dei loro servizi fondamentali come l’istruzione, la sanità, la sicurezza pubblica, etc. 
 
Il caso di scuola è quello del contenzioso tra Grecia e Belgio avvenuto tra gli anni’20 e’30. Il governo greco negli anni’20 appaltò la costruzione di alcune linee ferroviarie con relative forniture dei materiali alla Societè Commerciale de Belgique, che prestò al governo greco la somma necessaria per sostenere i lavori . Il governo ellenico emise titoli del debito pubblico a favore della compagnia belga per garantire il pagamento dell’obbligazione. 
 
Successivamente la Grecia negli anni’30, in seguito alla crisi economica scaturita dal crac finanziario del 1929 fu costretta ad abbandonare il gold standard e a dichiarare il default, dichiarando l’impossibilità a pagare il proprio debito e adducendo come motivazione quello “ stato di necessità” di cui abbiamo fatto cenno sopra, ma la Societè Commerciale de Belgique rifiutò questa spiegazione e con il patrocinio del governo belga fece ricorso presso la Corte Internazionale di Giustizia. La Corte accolse le motivazioni fornite dalla Grecia, dichiarando che il governo ellenico aveva fatto quello che qualsiasi governo responsabile avrebbe fatto al suo posto. 
 
Sono di aiuto le parole del rappresentante greco Youpis presso la Corte Internazionale per capire meglio come uno Stato dovrebbe comportarsi in situazioni del genere: ”possono occorrere circostanze che vanno al di là del controllo umano e che rendono impossibili per i governi ottemperare ai doveri verso i creditori e verso il popolo; le risorse della nazione sono insufficienti per adempiere ad entrambi i doveri. Si rivela impossibile pagare il debito e nello stesso tempo garantire ai cittadini un’amministrazione efficiente e fornire le condizioni essenziali per uno  sviluppo economico, sociale e morale della nazione”. 
 
Quindi a questo punto la domanda da porsi è: quale dei due doveri soccombe? La Corte in proposito non ha dubbi: “ A nessuno Stato è richiesto di adempiere, parzialmente o pienamente, le sue obbligazioni pecuniarie se queste mettono in pericolo il funzionamento dei servizi pubblici e ottengono l’effetto di disarticolare la pubblica amministrazione della nazione. Nel caso in cui il pagamento metta in pericolo la vita economica o comprometta il funzionamento dell’amministrazione, il Governo è autorizzato a sospendere o ridurre il pagamento del debito”. La conclusione da trarsi è che lo Stato non può smettere di fare lo Stato per pagare un debito e le richieste di pagamento lamentate dagli investitori internazionali non possono in nessun caso andare a ledere la sfera dei diritti fondamentali presenti in Costituzione e garantiti dal diritto internazionale. 
 
L’austerità sta sopprimendo proprio quella parte della Carta costituzionale che contiene i diritti fondamentali e che non possono essere compressi né snaturati da nessuna norma, poiché la Costituzione nella gerarchia delle fonti è ancora la fonte primaria del nostro ordinamento, e perciò dobbiamo necessariamente osservare che i trattati europei imponendo politiche economiche e livelli di deficit insufficienti a raggiungere gli obbiettivi dello Stato sociale quali la piena occupazione, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione, diritti fondamentali per un’affermazione e uno sviluppo dell’uomo nella società, siano illegittimi e inesistenti da un punto di vista giuridico. 
 
Questo conflitto è insanabile e viene da chiedersi perché mai nessun partito o gruppo parlamentare abbia mai fatto proprie queste istanze e chiesto il recesso o la denuncia dei trattati europei che allo stato attuale delle cose stanno compromettendo la somministrazione dei servizi pubblici essenziali e il Governo italiano sarebbe legittimato a chiederne il recesso per cause di forza maggiore. 
 
Le politiche europee non stanno solo danneggiando le economie degli stati membri ma annullano il ruolo essenziale dello Stato e la sua natura stessa di garante dell’ordine e del benessere sociale per instaurare un modello anarco-liberista fondato sulla legge della giungla, dove la vita stessa dei cittadini è svuotata e priva di valore e quella degli interessi speculativi invece è salvaguardata. Il precedente tra Grecia e Belgio ci mostra come i mercati non possono e non debbono disporre della vita degli stati sovrani, per passare dalla pretesa legittimità di sentenze emesse in paesi stranieri imponendone l’applicazione negli stati sovrani come nel recente caso tra i fondi avvoltoi USA e il Governo argentino, che si è legittimamente rifiutato di applicare una sentenza straniera che cambiava completamente la natura dell’obbligazione.

La Presidenta Kirchner ha dimostrato fermezza e rigore dando il benservito ad una finanza che da troppo tempo ormai continua a succhiare linfa dagli stati e per questo si è guadagnata la reprimenda del Ministro tedesco Schauble ed una pagina diffamatoria del Financial Times. Ecco, questa per noi è veramente una medaglia da appuntarsi al petto con orgoglio.

mercoledì 12 novembre 2014

L’uomo che volle farsi Re





Con Napolitano la parte nota come “costituzione economica” che mediava tra stato e mercato è stata sepolta



Molto è stato detto sulla figura di Giorgio Napolitano, del quale si è tornato prepotentemente a parlare in questi giorni, dopo l’ipotesi rimbalzata sulla carta stampata di dimissioni a gennaio, ponendo fine anticipatamente al suo mandato. Il ruolo di Napolitano nel determinare la storia recente dell’Italia è stato determinante e ha fatto discutere animatamente costituzionalisti e giuristi sulle posizioni e gli atti assunti dall’inquilino del Quirinale, che secondo l’interpretazione di alcuni analisti e costituzionalisti avrebbe traghettato l’Italia in nuovo sistema costituzionale, con le figure  del Capo dello Stato e Capo del Governo che si sono fuse indistintamente, senza che questa nuova figura introdotta da Napolitano godesse di un’investitura popolare. 
 
Senza Napolitano, non sarebbe stato possibile nominare Monti primo ministro, né tantomeno nominarlo senatore a vita. E' stato determinante per aprire le porte alla tecnocrazia europea. Se le ricostruzioni recenti, che ipotizzano un intervento diretto da parte di Napolitano già nell’estate del 2011 per procedere alla nomina di Mario Monti, quando in quel momento era al potere un governo nominato dalle urne, allora le attribuzioni costituzionali conferite al Capo dello Stato sarebbero state spezzate, irrimediabilmente piegate per asservire interessi sovranazionali. L’Euro, l’UE, la struttura gerarchica della Commissione Europea di Bruxelles, non sono altro che strumenti per trasferire poteri decisionali in sedi remote e di cui non si conoscono appieno i meccanismi, dove questi stessi centri di potere sono esecutori di una politica neoliberista, figlia del There is No Alternative e del pensiero unico, il cui unico scopo è trasformare gli stati sociali delle democrazie costituzionali in stati minimi sul modello di von Hayek.
 
Se l’attacco alla sovranità dello Stato italiano è riuscito pienamente, è stato grazie agli uomini delle istituzioni che scelleratamente hanno permesso la violazione della Carta e la decostruzione pianificata di decenni di conquiste sul piano del lavoro. Il “vincolo esterno” trova la sua giustificazione nell’incapacità della classe dirigente di saper gestire con trasparenza la cosa pubblica, ma la corruzione è stata la cartina di tornasole per cedere e trasferire i poteri alle facce austere e spesso rancorose dei burocrati europei.
 
Giorgio Napolitano in questo, rappresenta al meglio, il cavallo di troia dell’eurismo e della logica spesso ripetuta dell’“indietro non si torna”, come se l’unione monetaria e la globalizzazione che mira alla deflazione dei salari, fossero processi irreversibili. Spesso abbiamo sentito aspre critiche del Capo dello Stato contro chi non vuole piegarsi alle dinamiche sovranazionali, che agiscono senza alcuna legittimazione popolare. L’intera idea di integrazione nasce negli anni’50 e gli ideatori della globalizzazione hanno agito sempre con un unico obbiettivo; quello di accentrare i poteri degli stati nazione, considerati ingombranti e obsoleti per la costruzione di una società senza stato, ovvero una società senza garanzie dove le logiche di mercato sono preminenti e possono determinare il destino di un popolo, condannandolo agli stenti.
 
L’equilibrio costituzionale è stato spezzato, e la parte nota come “ costituzione economica” che mediava tra stato e mercato è stata sepolta, lasciando spazio alla logica della concorrenza perfetta, che altro non è che un oligopolio dominante sui servizi pubblici. Napolitano ha fatto propria questa logica, l’ha propugnata al popolo italiano per descriverlo come un insieme di cittadini che hanno vissuto “ al di sopra delle proprie possibilità”, oltraggiando i sacrifici e gli sforzi di chi ha costruito il Paese e lo ha reso una nazione civile. Un Presidente con queste caratteristiche, forse non era immaginabile nei pensieri dei padri costituenti, che dibattendo a lungo sulle funzioni e sul ruolo del Capo dello Stato hanno preso in considerazione forme e modi diversi di elezioni.

L’Onorevole Bozzi , membro della Commissione dei 75, nel dibattito in Assemblea Costituente, ipotizzava un presidente eletto con suffragio diretto per evitare una dipendenza diretta dalle Camere: “Creato un sistema che, sotto l'apparenza bicamerale, è nella sostanza un sistema unicamerale, il Capo dello Stato viene ad esser posto in una posizione di dipendenza dalla Camera. Questo rappresenta veramente un grave pericolo: siamo sul piano inclinato del regime di Assemblea, che è una delle forme dittatoriali più pericolose. Credo che dovremo rimeditare questo punto per giudicare se non sia preferibile che il Capo dello Stato venga eletto direttamente dal popolo. Si è detto, ed anch'io ho partecipato a questa opinione, che ciò potrebbe presentare un pericolo: l'investitura troppo vasta, troppo popolare, potrebbe dare al Capo dello Stato la sensazione di essere titolare di poteri personali. Pericolo, cioè, di dittatura. Ma credo che questo pericolo non esista. Non esiste se noi, come è e come ritengo debba rimanere, terremo distinte le funzioni di Capo dello Stato da quelle di Capo del Governo, e non faremo del Presidente della Repubblica anche un Cancelliere, secondo lo schema delle repubbliche presidenziali. Un pericolo di regime personale, dittatoriale, può esistere là dove nell'unica persona del Capo dello Stato si cumuli anche la funzione di Primo Ministro; ma dove c'è distinzione il pericolo non si presenta. Viceversa, si avrebbe il grande vantaggio di dare al Capo dello Stato una posizione di prestigio e di indipendenza, sicché egli potrà essere veramente il titolare di quella che è stata definita una potestà neutra, il grande moderatore dei supremi poteri.”  
 
La situazione immaginata dall’Onorevole Bozzi, si è verificata, con le due funzioni di Capo dello Stato e Capo di Governo che sono unite ormai dal presidenzialismo di Napolitano, con la variabile fondamentale della mancanza di suffragio diretto da parte del popolo. Un presidenzialismo de facto, che indirizza la vita politica del Paese da tempo ormai e che rimette in discussione l’opportunità di eleggere direttamente il Presidente, per staccarlo da una dipendenza troppo diretta dall’Assemblea parlamentare. La logica del vincolo esterno, ha reso di fatto, gli organismi costituzionali come il Parlamento e la Presidenza della Repubblica, gusci vuoti, esecutori del modello mercantilista, prono alle indicazioni degli organismi sovranazionali. Se dunque quel cordone di garanzia fondamentale che la prima carica dello Stato ricopriva è stato reciso, violando il ruolo di arbitro imparziale e garante dell’unità della nazione, con il superamento delle attribuzioni fondamentali e della prassi istituzionale della non rielezione, poiché nessun Presidente ha mai pensato di accettare un secondo mandato vista la lunghezza del settennato, sarà necessario ripartire da un’assemblea costituente che attribuisca più poteri al popolo evitando derive personalistiche, in ossequio a disegni di cessioni di sovranità politica, giuridica e monetaria.
 
Le parole dell’Onorevole Nitti nell’Assemblea Costituente, il quale proponeva un mandato più breve per il Presidente paventando il timore di un distacco dalla realtà popolare, riassumono lo spirito di una costituzione con il popolo protagonista:” Credo anche che la scelta del Presidente debba essere fatta in tal modo da dargli sempre la sensazione che il suo ufficio non è duraturo, perché soltanto questa sensazione lo avvicina alla realtà. Più si allontana il Presidente dalla realtà e meno opere compie.” Gli equilibri della Prima Repubblica che prevedevano un’alternanza costante tra maggioranza e opposizione nell’assegnazione del Quirinale, sono stati stravolti, come la prassi di affidare una delle due Camere all’opposizione per evitare squilibri e dare un peso troppo forte alla maggioranza.

Un nuovo processo di ricostruzione della forma e dell’organizzazione dovrà necessariamente passare per un coinvolgimento maggiore della consultazione popolare nella decisione del Presidente, e nella previsione di un referendum abrogativo anche per i Trattati internazionali ad oggi proibito dall’art. 75, poiché essi determinano e hanno determinato il destino del popolo ed è legittimo che i cittadini siano chiamati ad esprimersi a favore o contro la loro ratifica.  Se le dimissioni di Napolitano effettivamente avranno luogo, l’elezione del nuovo Presidente non cambierà poi molto ai fini del sistema politico e costituzionale, di fatto ci troviamo già in un presidenzialismo privo di suffragio, che obbedisce a precetti estranei alla Costituzione. Sarà opportuno costruire un nuovo sistema di legittimazione degli organi costituzionali per sanare quella frattura che si è creata nella storia recente.

Nel romanzo di Rudyard Kipling,” L’uomo che volle farsi Re”, il progonista Daniel Dravot, si fa credere fraudolentemente una divinità da un popolo primitivo, e quando l’impostore viene scoperto per quello che in realtà è, un semplice uomo, il popolo si ribellò. Il Re continua a fare la sua parte, e il soggetto che è assente, da troppo tempo ormai, è il popolo.
 

martedì 11 novembre 2014

La conferma ultima con le rivelazioni del NYT sul caso della Banca Popolare di Cipro: si scrive Bce, si legge Bundesbank





"L’arma che è stata messa in mano alla finanza speculativa, è il controllo della moneta degli stati"


Trent’anni è il tempo che la BCE ritiene opportuno per il rilascio al pubblico dei propri verbali. Non si vuole turbare la stabilità finanziaria dei mercati, la giustificazione addotta dal board della BCE.
Questo primo dato già induce a riflettere sulla trasparenza e sulla mancata capacità di controllo dell’istituzione monetaria europea da parte dei governi membri dell’eurozona. Il New York Times è venuto in possesso dei verbali della BCE che coprono il lasso di tempo da maggio 2012 a gennaio 2013 e possiamo vedere, leggendone i contenuti, come la BCE e i governatori delle altre banche centrali nazionali hanno affrontato il caso della Banca Popolare di Cipro. 
La Banca Popolare di Cipro si trovava in una forte esposizione finanziaria nel 2012 , dati i forti investimenti in bond greci che si erano rivelati fallimentari, e questa situazione ha costretto l’istituto bancario cipriota a rivolgersi sui mercati di capitali per ottenere prestiti. Accade che la BCE è piuttosto preoccupata della situazione, e le regole previste dall’istituto presieduto da Mario Draghi impongono stretti limiti al finanziamento degli istituti bancari, con un limite specifico di 2 miliardi di euro, e nel caso in cui tale limite dovesse essere superato la BCE si riserva il diritto di bloccare il prestito. I mercati non si fidano a rilasciare prestiti alla banca cipriota, ed in questo caso le regole prevedono un intervento di sostegno della Banca centrale di Cipro chiamata a ripianare la situazione di esposizione della Banca Popolare di Cipro, osservando il limite prescritto dalla BCE di 2 miliardi di Euro. 
Se una situazione di rischio dovesse verificarsi per una delle banche degli stati membri, sarà la Banca centrale dello stato in questione, nella fattispecie Cipro, ad intervenire come fu nel caso che stiamo trattando. Il dettaglio fondamentale è l’ammontare del prestito necessario per evitare il fallimento della BPC, che prevedeva un esborso di 9 miliardi di Euro da parte della banca centrale cipriota che giudicò “solvibile” l’istituto di credito e valutò la copertura degli asset sufficienti a garantire il prestito. Weidmann, il Governatore della Bundesbank, la banca centrale tedesca, non ci sta e non ritiene solvibile, in base alle valutazioni dei suoi esperti, la Banca Popolare di Cipro. 
Qui occorre fermarsi per ricordare che ogni stato membro possiede una quota della Banca Centrale Europea, il cui azionista di maggioranza è la Bundesbank con il 18,94% delle quote a fronte di un  misero 0.14% posseduto dalla Banca Centrale di Cipro. Difatti il potere di Cipro nella gestione della BCE e del caso che stiamo descrivendo è pari a 0,14% e lo vedremo a breve. Il Governatore della Banca Centrale di Cipro, Panicos Demetriades, obbietterà che i suoi esperti conoscono di certo meglio la situazione della Banca Popolare di Cipro rispetto alle valutazioni fornite dalla Bundesbank di Francoforte. Weidmann noncurante delle rassicurazioni del collega cipriota insiste: "se il prestito verrà concesso senza adeguate garanzie, ciò sarebbe un grave problema”. 
La Banca Popolare alla fine verrà fusa nel 2013 con un altro istituto di credito cipriota, la Bank of Cyprus, non prima di aver provveduto al suo salvataggio con i soldi dei propri correntisti per un totale di 10 miliardi di Euro. La solvibilità è gravata sulle spalle dei possessori dei depositi bancari, nonostante le rassicurazioni del Governo cipriota sulle garanzie, e si è deciso di far gravare il peso del salvataggio su chi aveva dei conti correnti, posseduti in larga parte da cittadini russi. Questa crisi ci mostra chiaramente come la BCE, così come è stata concepita e realizzata, sia un’emanazione dei desiderata della Bundesbank e come non esista alcuna solidarietà tra statimembri. Una banca centrale solidale dovrebbe essere partecipata con quote equamente distribuite tra tutte le banche centrali nazionali, per evitare disparità di trattamento come nel caso che abbiamo descritto sopra, ma la BCE è stata fondata per essere indipendente dai governi degli stati e non osserva la regola fondamentale che rende funzionale e sostenibile una banca centrale, ovvero non è ” prestatore di ultima istanza”. 
Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani il prestatore di ultima istanza è: “la funzione svolta in genere dalla banca centrale che, per prevenire o mitigare crisi finanziarie gravi, sostiene con crediti il sistema bancario.” La BCE non agisce da prestatore di ultima istanza e le crisi dei debiti sovrani, sono determinati dal suo costante rifiuto di garantire il debito degli stati membri. Se l’offerta di moneta non è più determinata dalle banche centrali nazionali e se queste non possono garantire il pagamento del proprio debito, poiché non possono stampare Euro, dovrebbe venire in soccorso la BCE, ma questa lascia che gli stati affoghino nel debito pubblico. In parole più povere, le banche centrali nazionali, non possono stampare euro e per pagare il proprio debito sono costrette costantemente a tagliare la spesa pubblica. In tempi di crisi e di recessione, la manovra peggiore che uno stato possa fare è quella di tagliare la spesa, quando invece ci sarebbe maledettamente bisogno di aumentare i livelli di deficit per poter invertire la tendenza.

Questo è il risultato di una banca centrale europea indipendente dagli stati che non è stata concepita per aiutare gli stati membri dell’eurozona e sostenerli nelle crisi economiche, ma per affondarli del tutto, e l’influenza tedesca mostra ancora una volta come essa voglia deliberatamente approfittare della sua situazione di vantaggio nella gestione della BCE, per cannibalizzare i suoi vicini. Lo stesso accadde in Grecia nel 2011, quando anche allora la BCE non agì per garantire il debito pubblico greco. L’arma che è stata messa in mano alla finanza speculativa, è il controllo della moneta degli stati. Senza moneta sovrana, non è possibile una crescita sostenibile, non si possono investire soldi nella ricerca, nella scuola e lanciare politiche occupazionali. Si possono solo fare dei tagli per pagare un debito in una moneta straniera, ed è in nome di questi che l’Italia si sta distruggendo grazie a dei governi (non eletti) alleati della finanza e nemici dei popoli.